Difficile trovare giustificazioni per il colpo di mano in Egitto che ha cancellato i risultati delle elezioni parlamentari. Ancor meno, provare simpatia per una giunta militare che guida la transizione del dopo Mubarak con crescente arroganza, tanto più a poche ore del ballottaggio per decidere chi sarà il presidente del più importante Stato arabo. Certo, la decisione della Corte suprema non era priva di appigli: il processo di selezione dei parlamentari era stato oggettivamente macchinoso e contestabile. Ci si interroga ora sugli scenari futuri e si teme lo scivolamento del Paese in una spaventosa guerra civile, aggiungendo altro sangue a questa primavera araba sempre più cupa. Come ha ben ricordato ieri su queste colonne Luigi Geninazzi, ci sono similitudini con il caso dell’Algeria degli anni ’90, ove una simile decisione scatenò un lungo, brutale massacro. Ma per quanto possibile, questo scenario non è fortunatamente l’unico. Lo dimostrano le vicende della Turchia, citata sempre come un esempio di transizione "morbida" da un sistema di potere laico controllato dai militari a un governo islamico pragmatico, come quello del primo ministro Erdogan. Ebbene, questo passaggio è stato solo apparentemente "morbido": se si guarda alla storia turca con una prospettiva più ampia, è chiaro che i decenni precedenti hanno visto continui colpi di mano e pressioni dei militari. Parlamenti sciolti, il partito islamista messo al bando negli anni ’90, lo stesso Erdogan condannato a dieci mesi di prigione per aver «attentato alla laicità dello Stato». Il precedente leader del partito islamista, Necmettin Erbakar, deposto senza tanti riguardi dai militari con la medesima accusa. Eppure, oggi, la Turchia rappresenta un modello a cui guardare. Molto dipenderà dalla reazione dei vari attori politici egiziani.Se i Fratelli Musulmani e i salafiti radicali del Partito della Luce (
Hizb an-Nur) continueranno a gridare al golpe e cercheranno la prova di forza, lo scivolamento verso una violenza incontrollata sarà probabilmente inevitabile. Se invece prevarrà una linea più moderata e le elezioni presidenziali daranno un risultato non controverso, sarà invece possibile far ripartire la difficile transizione verso un sistema più democratico. Gli islamisti dovranno forse riflettere anche sulla loro decisione di presentarsi alle elezioni presidenziali, non rispettando l’accordo preso con la giunta militare. Pure il timore di vedere tutti i centri di potere controllati dai Fratelli Musulmani ha contribuito a spingere i militari verso questa mossa estrema. Ma pensare a una soluzione solo interna all’Egitto è tanto pericoloso quanto illusorio. È tempo che la comunità internazionale e i suoi maggiori attori regionali – Washington, l’Unione europea e i Paesi arabi del Golfo (che finanziano e sostengono i movimenti islamisti salafiti) – tornino a pensare e ad agire in modo meno contraddittorio e timoroso. Dopo l’esempio pessimo dell’intervento Nato in Libia e alla luce dell’incapacità decisionale dinanzi alla catastrofe umanitaria in Siria, dobbiamo tornare ad avere politiche non solo reattive. Non dobbiamo aspettare l’esplosione della situazione in Egitto: i canali e i mezzi per inviare messaggi e fare pressioni esistono e sono noti. I Paesi arabi del Golfo non possono essere ignorati, ma devono agire per calmare la situazione, non per infiammarla ulteriormente, mentre la Turchia di Erdogan può esercitare il proprio
soft power verso le contrapposte parti politiche. Ma sono soprattutto gli Usa a dover ritrovare una visione mediorientale meno pasticciata di quanto la presidenza Obama abbia saputo finora offrire. Senza unilateralismi, ma con realismo e umiltà, è ancora una volta l’acciaccato e riluttante vecchio Occidente che deve smettere di guardare solo allo spread per attivarsi subito, discretamente e dietro le quinte. Cercando di convincere tutti a lavorare perché al Cairo si accetti l’idea che la transizione sarà una faccenda lunga e complicata. E che è meglio votare nuovamente piuttosto che non votare più.