Qualcuno è rimasto sorpreso: l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw o, all’italiana, Opac) non è esattamente un’organizzazione che stia con regolarità sulle prime pagine dei giornali. Altri non hanno nascosto la delusione: fra i favoriti vi era la giovane Malala Yousafzai, la sedicenne gravemente ferita lo scorso anno dai taleban, diventata un simbolo della resistenza al fanatismo religioso. E ignorata anche l’isola di Lampedusa, la cui premiazione avrebbe acquisito un significato particolarmente forte, dopo la recente sciagura, che ha visto centinaia di morti somali a pochi metri dalle sue rive.È evidente che – con la premiazione dell’Opac – si sia fatta una scelta diversa. Da un lato si è privilegiato un organismo tecnico, che lavora "dietro le quinte" rispetto a dei simboli più immediati per la pubblica opinione (come poteva essere Malala) o politici, come nel caso del controverso nobel assegnato "sulla fiducia" al presidente Obama. Dall’altro si è cercato di sostenere la pacificazione del tragico carnaio siriano, facendo forse l’unica scelta neutra possibile. Qualcuno, con sprezzo del senso del ridicolo, aveva perfino avanzato la candidatura di Putin, per il suo impegno a favore della fine del conflitto. Ma, di fatto, non vi erano figure attive nel risolvere questa guerra civile che non fossero percepite come parti in causa, vicine all’una o all’altra fazione.Se si voleva dare un messaggio di vicinanza alla Siria, sostenendo i tentativi di pace, l’organizzazione che lotta contro le armi chimiche diventava allora una scelta obbligata. Innanzitutto, perché è già attiva nel paese e ha il compito di smantellare il vasto arsenale di armi chimiche posseduto dall’esercito del presidente siriano Assad (teoricamente entro la metà del 2014, ma si sa che l’impegno è destinato a durare anni). Ma soprattutto perché in Siria questi ordigni particolarmente odiosi sono stati utilizzati recentemente, con la morte, lo scorso agosto, di almeno un migliaio di civili in un sobborgo di Damasco. A onor del vero, da Oslo si è poi precisato di aver voluto premiare lo sforzo generale dell’organizzazione contro le armi non convenzionali e non solo il loro attuale impegno in Siria. Insomma una di quelle dichiarazioni fra equilibrismo politico e eccesso di prudenza a cui non è nuovo il Comitato per il Nobel.Ma la sostanza, in realtà, non cambia. L’impegno per la non proliferazione, riduzione e messa al bando delle armi di distruzioni di massa, da quelle nucleari a quelle chimiche e biologiche, è una delle sfide principali di questo secolo. Impedire che il progresso tecnologico si accompagni a una proliferazione di armi non convenzionali e consolidare la consapevolezza delle tecnologie cosiddette "duali" (usabili tanto a fini civili quanto bellici) sono obiettivi attorno ai quali cresce la consapevolezza internazionale. Non a caso nel 2005 si insignì del Nobel per la pace anche l’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Si tratta di sforzi prolungati attorno a materie complicate che richiedono tempo, discrezione e – ancor più – la volontà della comunità internazionale di arrivare a questi obiettivi. Premiare l’Opac significa allora riconoscere questi sforzi e rafforzarne l’autorità e il prestigio, proprio ora che si deve impegnare in un programma di smantellamento difficile e rischioso.Ma sotto traccia, qualcuno vi vede anche il premio a una scelta di moderazione e di ricerca di compromesso. Perché se oggi si è avviato lo smantellamento delle armi chimiche siriane, ciò è dovuto alla sofferta decisione del presidente statunitense Obama di non mostrare i muscoli, bombardando la Siria. L’avesse fatto, oggi vi sarebbero molti più morti e nessun programma di eliminazione di quegli ordigni. Un messaggio che velatamente sembra alludere a un altro, e ancora più problematico, compromesso: quello sul nucleare fra Occidente e Iran. Che speriamo di poter festeggiare il prossimo anno.