Alì Saad Daubasha come Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel? Il bambino palestinese di 18 mesi, bruciato vivo ieri nel rogo appiccato alla sua casa da un gruppo di coloni ultranazionalisti israeliani, come i tre studenti israeliani assassinati da militanti palestinesi di Hamas nel settembre 2014, mentre fioriva il tentativo di dialogo promosso da papa Francesco? Alla morte dei tre ragazzi seguì la più sanguinosa delle guerre di Gaza, quindi è d’obbligo sperare con tutte le forze che, al di là dell’indignazione palestinese e dell’ennesima chiamata alle armi di Hamas, prevalga la ragione, se non proprio la moderazione.È lecito però, di fronte alla morte atroce del piccolo Alì, chiedersi che cosa stia succedendo a Israele. Il raid omicida dei coloni è l’apice di una serie di episodi più o meno gravi ma che vanno, tutti, nella direzione di un inasprimento delle relazioni esterne ma soprattutto interne allo Stato ebraico. Nelle ultime settimane: l’inutile prova di forza sulla spianata delle moschee, innescata dal ministro dell’Agricoltura Uri Ariel e da qualche decina di seguaci del partito Casa ebraica; il danneggiamento della chiesa dei Pani e dei Pesci a Tabgha, i cui responsabili sono finiti nei giorni scorsi sotto processo. Ancora: gli scontri all’insediamento di Beit El vicino a Ramallah, dove per abbattere due palazzine disabitate è dovuto intervenire l’esercito a frenare i coloni, peraltro confortati sul posto dal sostegno del ministro dell’Economia Naftali Bennett e di quello del Turismo Yariv Levin, entrambi incuranti del fatto che la demolizione fosse attuata per decisione della Corte Suprema. Con il premier Netanyahu poi subito pronto ad autorizzare la costruzione di altre 300 abitazioni nella stessa Beit El. O le frasi del vice-ministro dell’Interno Yaron Mazuz, che alla Knesset ha detto ai parlamentari arabi:«Vi facciamo un favore a lasciarvi sedere qui». E infine: il film apologetico su Ygal Amir, l’uomo che nel 1995 uccise Yitzhak Rabin, programmato in un festival e ritirato per l’intervento di Shimon Peres. O le performance della ministra della Cultura Miri Regev, ex responsabile dell’ufficio censura dell’esercito, che ha minacciato di tagliare i fondi a una compagnia teatrale di Haifa in cui recitano bambini israeliani e palestinesi, il cui direttore rifiuta le esibizioni nei teatri degli insediamenti.Insomma, per dira in breve: si ha la sensazione che la campagna elettorale muscolare e la recente vittoria elettorale di Benjamin Netanyahu, poi costretto ad allearsi con i partiti della destra laica e religiosa per ottenere la pur risicata maggioranza di 61 a 59 seggi, sia stata da certe forze interpretata come un "liberi tutti" rispetto a certi limiti prudenziali che molti in Israele vivono come ingiuste costrizioni ma che, forse, sono l’unica barriera di separazione tra questa brutta pace e la guerra vera.Netanyahu ha condannato l’assassinio del bambino palestinese come «un atto di terrorismo» e ha promesso di punire i colpevoli. Non v’è ragione di dubitare delle sue intenzioni, e di certo i colpevoli finiranno in cella come quelli che incendiarono la chiesa dei Pani e dei Pesci. Né possiamo trascurare, in ciò che infiamma gli animi, la lunga lista degli attacchi contro cittadini israeliani da parte di palestinesi: negli ultimi tumulti presso la spianata delle moschee, per esempio, si è visto anche il rabbino Yehuda Glick, sopravvissuto per miracolo a un attentato nel 2014.Il disagio delle autorità di Israele è oggi trasparente. Per paradosso, i palestinesi possono trarre profitto da questa situazione. Hamas con rabbia, al-Fatah in modo più politico, sottolineando quel che tutti vedono: che gli atti di violenza incontrollata di parte israeliana sono in crescendo (secondo alcune fonti, 63 attacchi contro palestinesi o loro proprietà nel solo aprile 2015). Ma Israele sembra ora affrontare un passaggio cruciale della sua storia, una fase che potrebbe far saltare i delicati equilibri interni che hanno fatto dello Stato ebraico una democrazia vera e quasi miracolosa in quella regione e in quelle condizioni. Una cosa pare certa: il popolo degli insediamenti, spesso usato (anche in modo cinico) come punta di lancia nel confronto con i palestinesi, sta passando all’incasso. E non sembra disposto ad accontentarsi di promesse o delle briciole della politica.È dunque più che mai il momento di una politica all’altezza della sfida. La spirale dell’odio e del sangue innocente versato e le simmetrie feroci del terrorismo non si spezzeranno senza il coraggio di inusitati e quotidiani gesti di pace o anche solo di buona volontà.