martedì 28 agosto 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
Oggi, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) renderà pubblica la decisione di una propria sezione nel giudizio instaurato contro l’Italia dai signori Costa e Pavan. Si tratta di una coppia che, pur non essendo sterile, desidera ricorrere alla procreazione artificiale, in quanto portatrice di malattie genetiche, e per l’occasione sottoporre gli embrioni creati in vitro alla diagnosi pre-impianto, e cioè a un’indagine sulla salute degli stessi, al fine di scartare quelli ritenuti «non sani».Tali possibilità sono precluse dalla normativa italiana sulla procreazione artificiale, la legge 40 del 2004 che, da un lato, all’articolo 4 circoscrive il ricorso a tale procreazione «ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico»; e, dall’altro, vieta all’art. 13 qualsiasi forma «di selezione a scopo eugenetico degli embrioni». Queste norme hanno il chiaro scopo di evitare che la procreazione artificiale, da strumento volto a risolvere i problemi posti dalla difficoltà della procreazione naturale, possa essere invece utilizzata con finalità eugenetiche E qui vale la pena ricordare l’accostamento fatto da Jürgen Habermas fra la diagnosi pre-impianto e «i pericoli evocati dalla metafora di una "eugenetica selettiva" sulla razza umana», dal momento che con tale indagine «l’esistenza o non esistenza viene decisa in base al criterio di un potenziale "essere così" piuttosto che altrimenti»).Il giudizio proposto davanti alla Corte europea costituisce l’ennesimo dei tentativi di scardinare i paletti fissati alla procreazione artificiale dalla legge 40 che, una volta fallita la via del referendum, si sono intensificati sul versante giudiziario, con un proliferare di processi nei quali si è cercato di superare, talora con qualche successo, le norme concernenti il numero massimo di embrioni creabili per ogni ciclo di procreazione, il divieto di congelazione degli stessi, il divieto di procreazione eterologa e, come nel caso in esame, i limiti all’accesso alla Pma e il divieto di diagnosi pre-impianto.I ricorrenti hanno chiamato la Corte europea a esprimersi sulla propria vicenda senza averla prima sottoposta all’esame dei tribunali italiani. La mancata attivazione dei cosiddetti «rimedi interni» dovrebbe costituire, secondo costante giurisprudenza della Corte, condizione d’inammissibilità del ricorso. Quest’ultimo verte oltretutto su un ambito nel quale la Grande Chambre della Corte ha, anche di recente, riconosciuto un ampio margine di apprezzamento in capo agli Stati membri del Consiglio d’Europa, tanto per il carattere "sensibile" della materia, quanto per le divergenti normative in vigore nei vari Paesi. Eppure il crescente "attivismo giudiziario" che caratterizza le decisioni di alcune sezioni in cui la Corte è suddivisa, la rapidità con la quale è stato discusso e deciso il caso (del quale è stata data con enfasi comunicazione), a fronte di un considerevole arretrato di ricorsi pendenti ben più risalenti, potrebbero essere indice di qualche sorpresa in arrivo.Resta, comunque, il fatto che la sentenza non è definitiva, essendo sottoponibile al giudizio d’appello della Grande Chambre, che di recente si è spesso discostata, talora clamorosamente, dalle decisioni di primo grado: basti pensare alla sentenza di fine 2011, con la quale la Grande Chambre ha rigettato il ricorso proposto contro l’Austria da una coppia che lamentava l’impossibilità di ricorrere alla fecondazione eterologa in vitro, ribaltando il giudizio opposto espresso in proposito da una sezione della Corte.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: