Mentre state leggendo queste righe quasi dieci milioni di greci si stanno recando alle urne per la più tormentata consultazione elettorale della loro storia. In gioco ci sono la permanenza di Atene nell’Unione Europea, il futuro dell’euro, la deriva di una nazione precipitata dal lungo e ingannevole nirvana nel quale l’avevano confinata i due maggiori partiti – il Pasok socialista come i conservatori di Nea Demokratia – nel più ingeneroso dei risvegli, dove l’insicurezza e la precarietà individuale si sposano con l’instabilità dei governi e con la prospettiva di un’uscita ingloriosa dalla modernità, dalla speranza di un futuro per milioni di giovani e il crollo di una società incapace di provvedere ai bisogni elementari dei propri cittadini. Ventidue formazioni politiche si contendono il consenso, ma solo due, il partito di destra guidato da Antonis Samaras e i radicali di sinistra di Syriza, hanno le carte in regola per formare un nuovo governo di coalizione. Entrambi i partiti hanno molto ammorbidito i toni nelle ultime ore, certi di intercettare quel voto moderato che assomma il 70% dell’elettorato e che non vuole che la Grecia esca dall’euro e riadotti la dracma. Il risultato sembrerebbe quasi scontato perché la scelta è fra due scenari opposti: riforme oppure stagnazione, Europa o isolamento, progresso o declino. Il problema è la credibilità della classe politica perché, dietro le frasi di circostanza, rimane per entrambi gli schieramenti un puntiglioso richiamo ai grandi elargitori, le banche, il Fondo Monetario Internazionale, la Commissione Europea e la Bce: rinegoziamo il piano di salvataggio, cerchiamo condizioni migliori e meno avvilenti per milioni di cittadini. Il leader di Syriza, Alexis Tsipras, non nasconde in caso di vittoria l’intenzione di nazionalizzare le banche e congelare il piano di privatizzazioni già previsto dal famigerato «memorandum», quel pacchetto di intesa che l’Europa (con in testa la Germania) ha concordato con i precedenti governi greci per impedire che al default tecnico del Paese (che ormai nessuno più nega: a metà luglio lo Stato non avrà più i fondi per pagare stipendi e pensioni) segua il collasso sociale, con i pericoli che ciò comporta. Qualcuno ha parlato addirittura del rischio che dopo trentotto anni di democrazia la Grecia possa di nuovo precipitare nel grembo del primo masaniello che troverà le parole per incanalare la rabbia e l’umiliazione delle centinaia di migliaia di persone che si sono viste ridurre il salario, che hanno perduto il posto di lavoro, che fanno incetta di euro ai bancomat e che consigliano ai propri figli di emigrare, perché – come recita un tragico striscione appeso proprio davanti al Parlamento – la vita è migliore «ovunque, ma non qui».
Questa umiliante discesa agli inferi di un Paese dal lungo e orgoglioso passato si poteva e si doveva evitare. Grande in tal senso è la responsabilità politica e morale – come più volte abbiamo spiegato su queste colonne – degli arcigni «contabili» dell’Unione Europea, come totalmente assente dal proscenio è stata la visione ideale dei padri che avevano costruito l’Europa del dopoguerra, soppiantata da una maldestra miopia e da malriposti interessi di bottega (e di limiti oggettivi trasformati in «muri») di cui la Germania – ma non solo la Germania – è smagliante campione. Il risultato e che la «punizione» inflitta alla Grecia che truccava i conti e viveva al di sopra delle proprie possibilità rischia di tradursi da domani in un boomerang che colpirà al cuore il sistema bancario europeo e finirà con il rimbalzare oltreoceano, restituendo a Wall Street il contraccolpo di una crisi che proprio da lì era cominciata nel 2007.
Ed è questo il rischio maggiore per i greci che vanno al voto: quello di lasciarsi travolgere dal fascino perverso della rovina, dall’abisso che l’uscita dall’euro comporterebbe, dal baratro nel quale trascinare Cipro, il Portogallo, la Spagna, in parte anche l’Italia, con il riso sardonico di chi si vendica del fato sapendo di essere il primo a subirlo. Per questo – da Berlino a New York, da Parigi a Tokyo – saranno in molti a restare vigili la notte che viene: anche per i Paesi ricchi e virtuosi si gioca un pezzo importante di futuro.