Una sentenza provvisoria, quella della Corte di Strasburgo sull’ammissibilità della selezione eugenetica degli embrioni umani mediante diagnosi preimpianto, ma comunque destinata a lasciare un segno scuro nella giurisprudenza europea. Conferma, infatti, che non pochi giuristi si sono orientati a imboccare la china dei "passi indietro" nella storia del riconoscimento, della tutela e della promozione dei diritti di ciascun uomo e di tutti gli abitanti del Vecchio Continente. Non solo per gli aspetti su cui hanno già disquisito diversi commentatori: la denuncia della (presunta) incongruenza tra due leggi dell’Italia, uno dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa (e dunque firmatari della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), che riguardano la vita umana prenatale; le ripercussioni che il pronunciamento potrebbe avere, se confermato, sulla normativa italiana e di altri Paesi dell’Unione; e la contraddizione di principio giuridico tra questo giudizio e quello espresso lo scorso anno dalla Corte di Giustizia europea sulla non brevettabilità dell’embrione umano. Aspetti rilevanti, sui quali è giusto riflettere giuridicamente e politicamente. Ma ce n’è ancora un altro, dagli effetti dirompenti eppure quasi inosservato. La sentenza ha sancito - di fatto, anche se non di principio esplicito - che il perseguimento della salute di un uomo o di una donna non ancora nati può giustificare la distruzione della vita di altri uomini e donne, anch’essi nella vita prenatale, ma malati o che potrebbero diventare tali. Le sentenze sull’aborto non si erano mai spinte fino a questo punto: alcune erano giunte ad ammettere la insindacabile prevalenza, a loro dire, della salute della donna sulla vita del concepito, malato o anche sano; altre, quella dei cosiddetti "interessi" della famiglia e della società rispetto alla nascita di bambini affetti da patologie congenite, tali da autorizzare la loro soppressione in utero. Infine, con l’aborto selettivo (la "riduzione" del numero dei feti nelle gravidanze plurigemine attraverso l’eliminazione di uno o più di essi), si è voluta privilegiare la salute di uno o più feti sani e della donna a scapito della vita di altri feti, anch’essi sani, il cui sviluppo contemporaneo avrebbe potuto compromettere la salute dei primi. In un certo numero di Paesi extraeuropei si è arrivati a tollerare anche la soppressione di un concepito femmina (per quanto sano) a favore della nascita di figli maschi.I giudici di primo livello a Strasburgo non si sono fermati qui (e siamo già ben oltre ogni limite di civiltà). Hanno abbracciato la tesi inaudita che la salute di un fratello o di una sorella vale la morte di un altro fratello o sorella, coetanei (stessi primi giorni di vita), con la sola "colpa" di essere affetti da anomalie genetiche legate allo sviluppo di alcune malattie.E così dalla locuzione «mors tua vita mea» – vertice dell’egoismo umano – si arriva all’ancor più abominevole sentenza «mors tua salus mea», senza neppure passare per una, sia pur indebita, applicazione del cosiddetto "principio terapeutico". La morte degli embrioni malati non è neppure lo strumento operativo per recuperare la salute di un altro embrione o bambino malato attraverso un processo terapeutico, ma solo una condizione "a priori" (e, come tale, dovrebbe essere sostenuta da robuste ragioni teoretiche e pratiche, e non semplicemente affermata) per non accogliere e promuovere la vita di un figlio che potrebbe risultare segnata dalla malattia, decidendo i genitori – sempre aprioristicamente – di consentire lo sviluppo esclusivamente a un figlio dichiarato sano, addirittura non ancora impiantato in utero (e, in alcuni casi, neppure concepito) in quel momento.Nella "civiltà della salute" europea sembra aprirsi l’inquietante scenario di una discriminazione – non strumentale alla guarigione ma precondizionale all’assenza di malattia – tra soggetti di pari razza, età, sesso, grado e luogo di sviluppo, figli dello stesso uomo e della stessa donna, che non possiamo non definire una nuova versione di autentica eugenetica negativa (con buona pace di coloro che insorgono di fronte a questo appellativo), che si consuma nei laboratori di una clinica per la procreazione medicalmente assistita.Nel nostro continente, come in altri, si è molto - troppo - discusso sull’ambizione di una eugenetica positiva, a partire dalle possibilità della clonazione e dell’ingegneria genetica, e troppo poco sulla tentazione di un ritorno all’eugenetica negativa, questa volta non con il volto truce dello sterminio di massa, ma con le parvenze ammalianti della biotecnologia riproduttiva individuale. Faremmo bene a riflettere su quale strada si sono incamminati i diritti umani di tutti e di ciascuno, a partire da quello fondamentale e inalienabile alla vita che, a rigore di ragione e di esperienza elementare dell’uomo, precede e rende possibile ogni altro diritto, anche quello alla salute.