martedì 20 dicembre 2011
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La notizia di due morti non è mai una bella notizia. Anche se uno dei due che hanno terminato il proprio cammi­no era noto come sanguinario, duro dit­tatore di uno stato pericoloso come la Co­rea del Nord. La notizia di due morti che hanno qualcosa in comune e molto di di­verso può, però, servire a comprendere meglio qualcosa che sta succedendo nel­la nostra epoca e che riguarda non solo i diretti protagonisti, ma tutti noi. La morte di Kim Jong-il, avvenuta per un banale infarto mentre si trovava in treno come un qualsiasi pensionato o pendo­lare stressato, ha trovato nella coinciden­za con la morte di Vaclav Havel un colpo di teatro degno di un commediografo profondo e ironico proprio come lo scrittore-presidente della Repubblica Ceca. Affiancata all’immagine dell’in­tellettuale che fin dagli anni 70 del No­vecento ha combattuto con il pugno dell’intelligenza rivestita di velluto, con la parola artistica e con il servizio per­sonale l’ideologia comunista, la ma­schera impenetrabile e gommosa del dittatore defunto appare ancora più grottesca. La chiamavano l’ultima ico­na del comunismo reale. Perché sem­brava d’altri tempi, e invece no. Sono questi i tempi di Vaclav e anche di Kim. Anche un regista pittorico e fanta­sioso come Paolo Sorrentino ha dedica­to al padrone dell’altra Corea una specie di ritratto narrativo qualche mese fa. Grot­tesco e ancor più disumano, se ripercor­riamo la storia recente e passata di un re­gime che lascia dietro di sé un’ininterrot­ta e immensa scia di sangue e di repres­sione in nome del comunismo. Regime, si badi, ben saldo tuttora, e forse – come temono alcuni – più pericoloso e tiranno in futuro. Le grandi parate, le manifesta­zioni di grandezza del potere nordcorea­no sono la commedia aspra dell’uomo quando vuole organizzare tutto. Quando presume – come pensavano i maestri e i capimastri del comunismo – di poter con­trollare tutto. L’ironia intelligente di Ha­vel, che non nascose nemmeno la sua de­bolezza e la sua malattia, altro che para­te, stava proprio nell’aver compreso e di­chiarato a tutti che alla base di quel pen­siero c’è un errore fondamentale. La ti­rannia comunista vigente in quella parte della Corea o vigente tra gli applausi di molti intellettuali e politici nostrani in gran parte d’Europa fino al 1990 non era la realizzazione difettosa di una idea giu­sta. No, era la realizzazione inevitabile di una idea sbagliata. Per questo Havel non aveva paura. Il suo potere non stava in una quantità di pote­re, ma nella verità intorno all’uomo. Quando, nella indifferenza del mondo culturale italiano, scrisse negli anni 70 'Il potere dei senza potere' fu pubblicato non dalle grandi case editrici, paladine – dicono loro, che lo han ripubblicato nel ’91! – della libertà. Ma da un piccolo e attivissimo centro studi sull’Europa o­rientale (C.S.E.O) guidato da don Fran­cesco Ricci, un prete forlivese amico di Karol Wojtyla, che presentiva e seguiva i germi di libertà rischiosamente vivi ol­tre la 'cortina di ferro'. Ben prima che Havel diventasse l’Havel che ora tutti riconoscono e dicono di stimare, c’era chi aveva visto e compreso chi aveva ra­gione e chi no. Il volto, così umano e senza trucchi di Ha­vel e la maschera impenetrabile del Dit­tatore Kim appartengono allo stesso tem­po. Sono mondi lontani, ma incarnano, a ben vedere, il volto finale, la icona di due modi di intendere il potere ancora ben presenti e attivi tra di noi. Il potere è sem­pre imperfetto. Ma quando si maschera di perfezione, quando pretende di fon­dare in se stesso la fraternità tra gli uo­mini, e di essere la soluzione dei proble­mi umani, quando fa somigliare perciò i suoi detentori a semidei impenetrabili, ecco diviene disumano, fallimentare, e tanto tragico quanto ridicolo. La faccia di Havel, vicino a quella del dittatore Kim (pace all’anima loro, in egual misura) ci ricordano questa attuale, viva e attiva dif­ferenza.
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