Nella ultima lettera di
Kayla Mueller, la giovane cooperatrice americana presa in ostaggio dall’Is in Siria di cui il presidente Obama ha confermato ufficialmente la morte, colpiscono soprattutto due cose. La ragazza, rapita nell’agosto del 2013 mentre lasciava un ospedale di "Medici senza frontiere" ad Aleppo, alla fine dello scorso anno scriveva alla famiglia, in Arizona: «Sappiate che io sono in un luogo sicuro, completamente intatto e sano (ho messo su dei chili, infatti); sono stata trattata bene, con il massimo del rispetto e della gentilezza».Questa annotazione stava nelle primissime righe della lettera di Kayla. Ma, ora che lei è morta, filtra da fonti dell’Intelligence Usa la convinzione che invece fosse stata "data in sposa" a un combattente dello Stato islamico. Dove "data in sposa" è un terribile eufemismo per indicare la sorte di una prigioniera che viene concessa in premio a un soldato, come una cosa. Allora quelle prime righe della lettera spedita a casa assumono il sapore di un’eroica bugia: come se ciò che più premeva alla prigioniera fosse di non accrescere il dolore, già così crudele, dei suoi.La seconda frase che colpisce della lettera di Kayla, una ragazza profondamente cristiana e già da anni attiva nel volontariato internazionale, da Gaza ai campi profughi della Turchia, è questa: «Mia madre mi ha sempre detto che tutto sommato, alla fine, l’unica cosa che hai davvero è Dio. Sono arrivata a un punto della mia esperienza in cui, in ogni senso della parola, mi sono
arresa al Creatore perché, letteralmente, non c’era nessun altro... E mi sono sentita teneramente cullata, nella caduta libera, da Dio».Queste righe, vergate in una prigione dello Stato islamico nell’anno 2014, come somigliano a queste altre, scritte in un gulag sovietico negli anni dello stalinismo: «Quando sono arrivata in lager ero atea. Ma una notte che non riuscivo a dormire, ho incominciato a chiedermi chi mi poteva essere vicino in quel momento d’angoscia, e ho passato in rassegna tutti, proprio tutti quelli che conoscevo e amavo (...) Poi, all’improvviso ho capito che c’era Cristo, lui era veramente vicino. Da allora è sempre stato con me». Autrice di queste righe è
Ella Markman, una cittadina sovietica di famiglia comunista, prigioniera politica condannata a venticinque anni di reclusione (la sua testimonianza è in un libro dedicato alle donne prigioniere dei gulag, di prossima pubblicazione, per iniziativa della Fondazione Russia Cristiana).Colpisce che, a distanza di tanti anni, la giovane americana credente e la prigioniera atea di un gulag testimonino una analoga esperienza.Nel fondo di una cella che pare chiusa per sempre, dentro la notte più buia, che noi, persone libere, non possiamo nemmeno immaginare, entrambe dicono: quando accanto a me non c’è stato più nessuno, allora Dio si è mostrato. Ne parlano come di una presenza concreta: per Kayla è una mano che, nella caduta libera dell’angoscia, la raccoglie e la regge; per Ella è una presenza improvvisamente vicina e fedele, che non la lascerà più.E tra le due prigioniere e le due lettere ci sono di mezzo dei mondi, e lo scorrere poderoso della storia. Una di loro è vittima di un totalitarismo di matrice politica che di lì a non molti anni sarebbe crollato, l’altra di un totalitarismo di matrice religiosa, che ancora pochi anni fa sarebbe stato inimmaginabile. Ma tutte e due sono ostaggi di una ideologia tendente a negare l’uomo stesso, insieme alla sua libertà.Ed entrambe, dalle loro prigioni così lontane nello spazio e nel tempo, raccontano di quel Visitatore che si fa presente e vivo, quando attorno non c’è più nessuno. «Mi è stata mostrata nel buio la luce, e ho imparato che persino in prigione uno può essere libero, ne sono grata», ha lasciato scritto Kayla, 25 anni, nell’ultima lettera ai suoi. Dove sembra che la storia si ripeta in ingranaggi ciechi, e sempre di nuovo la sopraffazione e la violenza bestiale ritornino. E però, nel silenzio di nuove prigioni, qualcuno testimonia che torna anche, per chi lo cerca, un misterioso fedele compagno.