Liberi di scegliere ogni possibile opzione sulla nostra vita: dentro uno spazio pubblico che declassa il sacro autentico e promuove a oggetto di culto ogni genere di credenza secolare, l’autodeterminazione è rapidamente assurta a dogma sul quale le riserve non sono più ammesse. La libertà dev’essere assoluta e indiscussa, niente condizioni, limiti o contrappesi, altrimenti che libertà è? Pensiamoci bene: è un concetto che ci sta penetrando nelle ossa, tanto diffusamente è applicato – dal piano banalmente materiale alle scelte per il futuro –, sino a farne il paradigma di una vita che sembra fluttuare dentro uno smisurato menù di possibilità, illudendoci in fondo di essere privi di condizionamenti e relazioni. Onnipotenti, persino. Esisto e ho senso se – e finché – posso fare e decidere ciò che voglio. A dover lasciare spazio a una concezione così infantile e ingombrante della volontà personale è però la stessa struttura della persona, incompatibile per sua natura con una simile pretesa iper-libertaria: tutto nella vita umana parla di legame e di finitezza, semplicemente non è vero che possiamo fare di noi stessi qualunque cosa vogliamo. Ecco perché quando si sente parlare di "libertà di morire" – perché l’eutanasia alla fine afferma questo – scatta una ribellione interiore: l’intelletto può contemplare un’ipotesi simile, per quanto autodistruttiva, ma la nostra umanità non la tollera perché sa che è la negazione di ciò che ci costituisce come persone.Vallo a spiegare ai cantori del suicidio assistito, però. Ci vuole ben altro che un ragionamento filosofico e morale, perché certo dilagante pragmatismo ha sbaragliato i princìpi assoluti come se fossero lussi insostenibili in tempi aspri come questi. Ci vuole una storia, allora. Un caso. E qualche volta la storia nasce in mano agli stessi che con quella vicenda umana avrebbero voluto dimostrare che siamo liberi di far tutto, compreso accelerare la nostra morte chiamandolo "diritto" e vedendolo scritto e riconosciuto – come ormai usa fare con ogni sorta di pretesa – in una legge dello Stato. Succede che chi insiste da anni per indurre il Parlamento a codificare giuridicamente la libertà di "farla finita" – il buco nero del diritto che uccide se stesso, legittimando un delitto – recluti un testimonial anonimo da accompagnare in Svizzera per garantirgli il suicidio assistito in una struttura che lo pratica come un qualunque servizio sanitario a pagamento. S’intende che la morte procurata del paziente – nel caso specifico, un malato grave, forse persino terminale – avrebbe dovuto suonare come una pubblica condanna del "proibizionismo" italiano, che costringerebbe alla morte oltreconfine chi vuole essere libero di abbreviare i giorni della sofferenza. Ma la libertà trasformata in monumento fine a se stesso non riesce a tenere la scena fino all’epilogo, quando l’umanità rimossa riesce a farsi largo e riprende la parola: in fondo, basta ascoltarla.È quello che è accaduto nel caso-limite col quale si voleva allestire un nuovo spot per l’eutanasia. Il paziente che pensava alla morte come destinazione finale della sua libertà ha cambiato idea. Ma perché l’ha fatto? Chi intendeva accompagnarlo fino al momento nel quale avrebbe ingoiato il farmaco letale sostiene che nel nome di quella stessa libertà ha deciso di selezionare il comando "vita", come se la scelta tra le due opzioni fosse indifferente. Ma se la persona inferma si fosse vincolata a un’auto-sentenza di morte perdendo poi la coscienza non gli sarebbe stata accordata la libertà di mutare giudizio? Il quadro clinico sarebbe diventato un fattore di discriminazione tra chi può tornare sui propri passi e chi no?La verità è dentro la nostra esperienza del reale: il paziente che non riusciva più a trovare nella propria condizione uno scorcio di speranza ha trovato l’ascolto e l’accompagnamento cui ha diritto (questo sì reale, primario e incancellabile), una terapia che cura pur non potendo guarire ma che certamente non uccide. Contemplare tra i possibili oggetti della libertà lo smaltimento della vita come un bene di consumo ormai esausto, privo di interesse e utilità, un rifiuto di cui disfarsi, è il postulato che declassa la nostra dignità al pari degli oggetti, utilizzando per giudicarla categorie che non le appartengono. Per questo una legge che autorizzi eutanasia o suicidio assistito non sarà mai "giusta": mostrare all’uomo che una legge – date certe condizioni – accetta di equipararlo a un rifiuto è di per sé un’umiliazione della speranza. La libertà reclama la vita: ce lo grida il malato che cambiando idea sul proprio destino ha spiegato a tutti ciò cui ha davvero diritto.