venerdì 19 luglio 2013
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L’uso politico della magistratura non è certo una novità in Russia. Ma ieri il meccanismo della giustizia ad orologeria ha toccato il culmine con la sentenza emessa a carico di uno dei leader delle imponenti manifestazioni di protesta contro i brogli elettorali nell’inverno del 2011. La condanna di Aleksei Navalny a cinque anni di detenzione per truffa e appropriazione indebita appare mostruosamente grottesca. Già l’accusa, peraltro smentita da molti testimoni, d’aver rubato e venduto sottocosto del legname, suona un poco bizzarra, ripescata da un giudice solerte dopo che era stata archiviata per palese infondatezza qualche anno fa. Non è un caso che l’inchiesta sia stata riaperta nel luglio del 2012, due mesi dopo l’insediamento di Putin al Cremlino per il suo terzo mandato presidenziale contestato vivamente nelle piazze. Del resto questo è solo uno dei tanti procedimenti avviati nel corso di quest’ultimo anno contro il combattivo avvocato e blogger divenuto popolare in Russia. Più di ogni altra figura dell’opposizione Navalny è odiato dal potere per il linguaggio diretto e la retorica infuocata che prendono di mira «uno Stato feudale» guidato da «un partito di ladri e truffatori». La condanna che gli è stata inflitta dal tribunale di Kirov, città a mille chilometri da Mosca, è un messaggio a tutta la Russia e tende a rovesciare l’immagine del coraggioso avvocato anti-corruzione in un piccolo truffatore di provincia. Una condanna data per scontata, a cominciare dall’imputato che si è presentato in aula al momento della sentenza con una borsa di effetti personali, pronto ad andare in carcere. Il massimo della pena prevista era dieci anni, il pubblico ministero ne aveva chiesto sei. Il giudice ha deciso che cinque anni era la misura giusta: in questo modo Navalny non potrà candidarsi alle elezioni presidenziali contro Putin nel 2018. Inoltre rischia di rimanere escluso da quelle municipali che si terranno nella capitale russa il prossimo 8 settembre. Proprio due giorni fa il Comitato elettorale di Mosca aveva dato il via libera alla sua candidatura a sindaco, una beffa da commedia alla Gogol. Una regia perfetta e spudorata che fa del processo Navalny un caso da manuale per chi intende mettere fuori gioco pericolosi avversari politici. Così funziona la "democrazia guidata dall’alto" voluta da Putin che aveva già sperimentato la sua implacabile macchina della giustizia contro Mikhail Khodorkovskij, l’ex oligarca della Yukos finito in prigione nel 2003 dopo aver manifestato l’intenzione di scendere in politica contro il leader del Cremlino. Khodorkovskij potrebbe tornare in libertà l’anno prossimo ma su di lui incombe un nuovo processo. A differenza dell’Unione Sovietica, nella Russia di oggi c’è libertà di viaggiare, lavorare, discutere e perfino criticare quel che non va. Purché non si voglia far politica in aperto contrasto con "zar Putin", pronto ad usare il braccio della legge in modo sfacciatamente di parte. E all’indomani della condanna di Navalny non saranno certo le caute perplessità sollevate dalla baronessa Ashton a nome dell’Unione Europea a far cambiare idea al Cremlino. Nel nostro Paese, dove ogni giorno si levano voci indignate contro l’uso politico della giustizia, si dovrebbe reagire con fermezza davanti al triste spettacolo di una magistratura asservita al potere. Ma non è così. Non perché la Russia è troppo lontana, ma perché Putin è troppo vicino.
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