La tregua tra Israele e Hamas, promossa unilateralmente dal governo dello Stato ebraico e rifiutata dai palestinesi, quindi fragilissima, è durata meno di sei ore. Poi gli scontri sono ripartiti con la stessa intensità di prima: pioggia di bombe su Gaza, pioggia di razzi sulle città israeliane. Hanno quindi buon gioco, in apparenza, i falchi degli opposti schieramenti, che infatti ora chiedono di aumentare la posta, di invadere, di colpire ancor più duramente. Non è difficile capire, però, che le grida dei falchi sono un segnale di disperazione. Una settimana di incursioni israeliane sulla Striscia hanno provocato circa 200 morti (dei quali due terzi civili) e 1.500 feriti senza nemmeno rallentare l’attività degli artiglieri di Hamas, che anche ieri hanno lanciato un’ottantina di razzi, facendo la prima vittima israeliana.È una storia che si ripete implacabile da almeno quindici anni e che, anche politicamente, ha coperto i contendenti di cicatrici profonde: Hamas è sempre più solo, anzi, è accerchiato (Gaza è chiusa tra Israele e l’Egitto del nuovo regime militare) e persino il suo storico sostenitore, l’Iran, si defila ogni giorno di più. Israele, dopo tante campagne militari, non è certo più sicuro di prima. Al contrario, progetta sempre nuovi muri: con la Cisgiordania, il Sinai, Gaza e presto anche con la Siria. Muri che chiudono fuori gli "altri" ma intanto chiudono dentro gli israeliani. Rispetto a questo niente affogato nel sangue, anche una tregua unilaterale e precaria poteva essere un’occasione. Buttata, come tutte quelle che si sono presentate dall’inizio di questa crisi. D’altra parte, chi ancora ricorda Naftali, Gilad, Eyal e Muhammad, i tre studenti israeliani e il ragazzo palestinese uccisi proprio per innescare quest’altra guerra? Chi parla più delle indagini o dei due palestinesi di Hebron subito indicati come i rapitori? Importa ancora a qualcuno che sia fatta giustizia? È evidente che gli assassini dei ragazzi israeliani volevano arrivare proprio a ciò cui stiamo assistendo: a un’ennesima strage che sradicasse i semi di speranza che la visita di papa Francesco in Terra Santa prima, l’incontro di Abu Mazen e Shimon Peres in Vaticano poi avevano generato. Altrettanto evidente è che tutto bisognava fare per sottrarsi a tale provocazione. Ma mai come in questa circostanza la politica si è mostrata impari al compito, priva di visione, concentrata sulla tattica spicciola, attenta solo a soddisfare le pulsioni più immediate e meno lungimiranti di società in cui le esperienze del passato hanno inevitabilmente creato un riflesso automatico di rancore e vendetta.Come disse papa Francesco nel giorno in cui Abu Mazen e Shimon Peres pregarono in Vaticano con lui e con il patriarca ecumenico Bartolomeo II: «Per fare la pace ci vuol coraggio, molto di più che per fare la guerra». Al Medio Oriente, in particolare a questo Medio Oriente le cui crisi (dalla Siria all’Iraq, dalla Palestina alla Libia) sono state tutte implacabilmente aggravate dall’illusione di poterle risolvere con le armi, serve proprio un tal genere di coraggio. Quello, come disse quel giorno il Papa, di «accettare sacrifici e compromessi», di stupire, di alzare lo sguardo dalla piccola convenienza del presente per puntarlo su un futuro ancora da costruire. Per uscire, soprattutto, da questo rincorrersi crudele di uccisioni che produce solo immobilismo e sofferenze per tutti. Come ancora Papa Francesco ha ricordato nell’Angelus di domenica scorsa, la pace non è una cosa che arriva in dono, ma una benedizione che dobbiamo costruire, giorno per giorno, con le nostre mani, con atti concreti e ripetuti. È l’atteggiamento opposto a quello di coloro che si rassegnano al male e alla violenza, e magari si impegnano pure a descriverli come inevitabili. C’è in questo un impegno per ogni singolo uomo di buona volontà ma insieme un richiamo alla responsabilità degli uomini di potere e dei politici. «Esorto le parti interessate e tutti quanti hanno responsabilità politiche a livello locale e internazionale – ha detto il Papa da piazza San Pietro – a non risparmiare la preghiera e alcuno sforzo per far cessare ogni ostilità e conseguire la pace». Quanti dei protagonisti possono oggi dire di non essersi risparmiati rispetto all’obiettivo naturale di costruire la pace?