«L'attentato contro la chiesa copta della Vergine Maria a Giza costato la vita a quattro persone, tra cui due bambine di otto e dodici anni, è un attacco contro la religione e anche contro la morale». Sembra una frase ovvia, doverosa, ma il fatto che queste parole le abbia pronunciate Sheikh Ahmed el-Tayeb, il grande imam rettore dell’Università al-Azhar del Cairo – uno dei principali centri d’insegnamento religioso dell’islam sunnita – fa sì che assumano un valore speciale. Perché normalmente di fronte alle violenze contro i cristiani l’islam tace e l’Egitto non fa eccezione: tacciono i suoi imam, tace il mufti, tacciono gli intellettuali, tacciono i rappresentanti del variegato arcipelago che abbraccia un arco confessionale (e ideologico) che va dai laici colti e illuminati – oramai una minoranza – ai Fratelli musulmani (due dei quali facevano parte del "commando" terroristico di Giza) fino ai salafiti e a quell’oscura falange in armi che è il jihadismo sempre più contiguo ad al-Qaeda, quest’ultimo peraltro più propenso all’applauso che alla condanna quando si tratta di vittime cristiane, una corposa minoranza, 8 milioni di anime, il 10% della popolazione, che evidentemente in molti vorrebbero vedere scomparire.Per questa ragione la voce di al-Azhar merita attenzione. Attenzione e circospezione al tempo stesso. Il lungo catalogo degli attentati anti–cristiani in Egitto (dai 21 morti alla Chiesa dei Santi ad Alessandria alla strage del Cairo del 9 novembre 2011 – 20 morti e 200 feriti – fino ai quattro morti di due giorni fa, falciati a raffiche di mitra all’uscita da un matrimonio, per non dire delle 58 chiese copte bruciate negli ultimi anni, quasi il doppio se aggiungiamo quelle evangeliche e ortodosse e delle decine di esercizi commerciali devastati) si staglia impietoso nella nudità delle sue cifre raggelanti, e la voce di centinaia di vittime e migliaia di persone che stanno scegliendo l’esilio (almeno 100mila cristiani sono emigrati negli ultimi otto mesi) impone prudenza. Perché l’esecrazione di un imam di spicco non cancella questa Kristallnacht senza fine che assedia la comunità copta d’Egitto. La quale – memore della relativa libertà di cui godeva sotto il lungo regime di Mubarak – aveva caldeggiato la caduta di Mohammed Morsi, avendo sperimentato sulla propria pelle l’ottusa intransigenza dei Fratelli musulmani: gli stessi che grazie alle regole della democrazia avevano conquistato il potere ma si erano rivelati assolutamente incapaci di gestirlo democraticamente.
E probabilmente è in quel buio bosco di rancore e di malrepressa intolleranza che vanno rintracciate le mani omicide che assaltano chiese, bruciano negozi, uccidono cittadini inermi e sfilano di notte sotto le finestre dei ministri del culto gridando "morte ai cristiani!". Mani oscure quanto facilmente eccitabili e sapientemente dirette, dietro alle quali si possono indovinare senza fatica grovigli di interessi e conflitti privati assai poco legati alla religione. Come bene spiega l’analista dell’Hudson Institute di Washington Samuel Tadros nel suo Motherland Lost: The Egyptian and Coptic Quest for Modernity (ovvero: La patria perduta, i copti d’Egitto e la ricerca della modernità) la comunità copta ha redditi, profili culturali e livelli d’istruzione considerevolmente più elevati della media nazionale e ha dato la Paese figure di caratura internazionale, si pensi solo al magnate delle telecomunicazioni Naguib Sawiris, a Youssef Sidhom, editore di Watani, l’unico giornale cristiano d’Egitto, e all’ex segretario general dell’Onu Boutros Boutros Ghali. Una comunità che agli occhi della grande massa degli egiziani – travolta da una crisi economica la cui responsabilità maggiore va senz’altro ascritta alla drammatica inettitudine del governo Morsi – appare come una sorta di invidiabile enclave e per questo facile bersaglio del fanatismo.
Non sappiamo dire se il governo che verrà, sostenuto dai militari e con i Fratelli musulmani messi al bando, saprà e soprattutto vorrà proteggere la ancor vasta comunità cristiana d’Egitto. Vorremmo poter pensare che la prima a reclamarne la libertà di credo, di pensiero, il diritto stesso di esistere sia la voce dell’islam. Vorremmo. Sperando che non sia uno dei tanti miraggi d’Oriente.