Quando un "marchio" diventa diffuso su scala mondiale e la sua "credibilità" nell’attribuirsi imprese criminali viene subito accettata senza bisogno di troppe verifiche, la sua forza sembra avere raggiunto un punto di svolta. Il sedicente Stato islamico, praticamente sconosciuto fino all’estate del 2014, ha ottenuto questo risultato con la brutalità praticata sistematicamente unita all’arte della propaganda nell’era dei social media.Ancora non sappiamo se sia da attribuire all’Is l’omicidio del cooperante italiano Cesare Tavella, vigliaccamente colpito alle spalle in Bangladesh, dove lavorava a un progetto di aiuto internazionale alle popolazioni più svantaggiate. Ma è bastato un messaggio dai toni ormai consueti, benché assai poco affidabile, per far scattare l’associazione fra la barbara esecuzione di un inerme e la capacità di maligna fascinazione che il Califfato saprebbe esercitare ora anche in un Paese islamico tra i più popolosi, nel quale non aveva ancora agito. Le cautele del giorno dopo da parte del governo di Dacca, che non si segnala certo per apertura e trasparenza, sono interpretate più come una minimizzazione a scopo interno che come una vera smentita.Nelle stesse ore, in un vertice anti-terrorismo alle Nazioni Unite, il presidente americano Obama proclamava che l’Is «perderà perché è circondato». Non è in dubbio che lo Stato islamico, in quanto entità coesa in una porzione di Siria e di Iraq, possa essere disarticolato con un’azione finalmente congiunta e determinata di tutte le forze e le nazioni che a parole hanno annunciato di volerlo combattere. Diverso è il crescente rischio che l’appello fondamentalista, come un contagio, si propaghi e moltiplichi i suoi adepti in giro per il mondo.È controversa la teoria scientifica detta dei "memi", ovvero di unità minime di informazione che possono colonizzare le menti degli individui grazie a caratteristiche speciali, siano essi il ritornello di una canzone o l’idea che contribuisce a costruire una visione del mondo. In ogni caso, l’ipotetico "meme" dell’Is sembra avere una presa particolare e su questa bisogna agire con creatività e tempestività. Se infatti gli Stati Uniti hanno potuto annunciare che sono diventati 60 i membri della coalizione internazionale impegnati, formalmente, contro lo Stato islamico, il segretario geneale dell’Onu Ban Ki-moon ha invece indicato che i dati in suo possesso «mostrano un aumento del 70% dei "foreign fighter" da oltre cento Paesi verso le regioni di conflitto siriano». E, com’è noto, questi combattenti per la causa dell’Is spesso tornano in patria addestrati all’uso delle armi e ancora più alienati dal proprio contesto sociale, pronti a trasformarsi in pericolosi cani sciolti del jihad. È già accaduto più volte con esiti tragici in Francia e in Belgio, potrebbe ripetersi facilmente in altre nazioni. D’altra parte, l’aumentare degli attacchi con l’etichetta Is e gli apparenti successi nel reclutamento non fanno che esaltare il richiamo all’ideologia radicale che strumentalizza e stravolge la religione islamica. Che la guerra al Califfato si debba fare a tutto campo, senza esitazioni né ambiguità, non ha bisogno di essere ulteriormente ribadito. Che i bombardamenti "alla francese", con singole azioni militari di dubbia efficacia, non risolveranno la situazione è invece evidente. Quello che non bisogna stancarsi di trovare è l’antidoto al venefico "meme" dell’intolleranza, che si installa negli spiriti più fragili, con il suo carico di odio per i cristiani, gli ebrei, gli occidentali, definiti genericamente e caricaturalmente "crociati". Vi pare un "crociato" il cooperante che vola a migliaia di chilometri da casa per insegnare un lavoro ai più poveri?Eppure, c’è chi probabilmente ne è convinto ed è disposto a uccidere in nome di tale delirante identificazione. Finché non riusciremo a limitare questa epidemia di fanatismo, anche ridimensionando l’enfasi sullo Stato islamico a ogni presunta rivendicazione, difficilmente la lotta contro il terrorismo ispirato al Califfo sarà davvero vinta.