Uno degli impegni più ardui della maggioranza «possibile» che sostiene il governo di Enrico Letta è quello che riguarda le riforme istituzionali. Il presidente del Consiglio ha indicato lo strumento, una Convenzione che veda la presenza di parlamentari e di esperti esterni, e il tempo, diciotto mesi al massimo, per verificare se il lavoro avrà prodotto convergenze e risultati sufficienti per arrivare a una approvazione di modifiche costituzionali condivise. Se l’orizzonte invece resterà confuso, il governo, come si suol dire «ne trarrà le conseguenze», cioè si dimetterà.È rilevante il fatto che l’esecutivo leghi al sua sorte al successo di una operazione che compete al Parlamento, cui spetta approvare, in doppia lettura in ambedue i suoi rami su testo identico, le riforme costituzionali. Questa sottolineatura, che ricalca un monito assai esplicito lanciato da Giorgio Napolitano nel suo discorso di accettazione del secondo mandato, ha il duplice effetto di responsabilizzare maggioranza e opposizioni, ma anche di fornire a queste ultime un’arma, il contrasto del processo riformatore, per sabotare governo e legislatura.Naturalmente in una democrazia le minoranze esercitano una funzione essenziale di controllo e di opposizione, che ha diritto al massimo rispetto. Normalmente questa funzione si esercita sul terreno delle scelte politiche, mentre l’area delle tematiche istituzionali dovrebbe essere considerata con uno spirito diverso da quello che caratterizza gli schieramenti di governo. Per la verità nell’ultimo ventennio non è andata così: le poche riforme istituzionali approvate dal Parlamento hanno ottenuto un consenso corrispondente a quello del governo di quel momento, il che ha provocato l’opposizione delle minoranze, il che ha fatto abortire per via referendaria la riforma abbastanza organica che era stata approvata di forza dal solo centrodestra o ha lasciato senza il seguito necessario la frettolosa riforma del titolo V approvata per una manciata di voti dal solo centrosinistra.Ora Pd e Pdl le due formazioni politiche che hanno costituito il baricentro delle coalizioni contrapposte si trovano, insieme ai centristi raccolti intorno a Mario Monti, a collaborare nella stessa maggioranza. Ci sono dunque condizioni nuove che consentono di superare le ragioni reciprocamente polemiche che hanno paralizzato il processo riformatore nelle legislature precedenti. Purtroppo le opposizioni attuali sembrano aver scelto la strada della non collaborazione, in base a un’identificazione possibile ma impropria della battaglia politica contro la maggioranza di governo con quella per impedire le riforme istituzionali. Si è sentito Stefano Rodotà, diventato una sorta di icona delle opposizioni di sinistra estrema e grillina, attaccare in modo distruttivo l’idea stessa di una discussione sulla forma di governo e demonizzare la convenzione come strumento "pericolosissimo" di manomissione costituzionale.Le opposizioni, a quanto pare, chiedono semplicemente una nuova (o la restaurazione di una vecchia) legge elettorale, per poi chiudere immediatamente la legislatura con elezioni anticipate. A parte il fatto che non esistono leggi elettorali che possano garantire di per sé la governabilità, specialmente in un sistema di bicameralismo perfetto, sarebbe un errore grave rinviare ancora una volta l’adeguamento del sistema istituzionale italiano alle esigenze che vengono dalle trasformazioni esterne e interne al Paese. Una ordinata gerarchia di funzioni e di sussidiarietà tra istituzioni europee, statali, regionali e comunali deve essere definita, per evitare l’attuale situazione confusa e foriera di contenziosi interminabili. Il meccanismo decisionale deve essere affidato a istituzioni con poteri certi e dimensioni (e costi) meno elefantiaci. Sono solo due delle tante esigenze su cui tutti sono d’accordo a parole, su cui si sono costruite giustamente polemiche per l’inefficienza dei poteri pubblici, che non troverebbero soluzione se ci si fermasse a una legge elettorale, che peraltro sarebbe ragionevole pensare in relazione con la forma di governo prescelta, come accade in tutte le grandi democrazie.La scelta su cui sembrano orientarsi le opposizioni, quella di un
conservatorismo istituzionale basato sulla solita storia dell’inaccettabilità della collaborazione necessaria, ricalca errori già commessi in passato dalle maggiori formazioni, persino da quelle della Prima Repubblica che respinsero gli inviti di Francesco Cossiga al «coraggio riformatore». Ma naturalmente il fatto che questi errori siano già stati commessi da altri non giustifica chi li vuole perpetuare ora.