Non è sbagliato chiedersi se la violenza sia nelle “vene d’America”, come molti suoi scrittori – e il suo cinema – hanno raccontato, creando un immaginario in cui la sparatoria al comizio di un candidato per la Casa Bianca sconvolge ma non sorprende. Il recente e discusso film “Civil War”, centrato proprio su uno scontro intestino ai nostri giorni tra stati fedeli al presidente e Stati decisi a perseguire una secessione, è stato non troppo lontanamente ispirato dalla contesa tra le due anime di un Paese che sabato pomeriggio ha fatto un altro passo verso la frattura politica non ricomponibile.
L’attentato a Donald Trump – i cui contorni non sono ancora chiari, aggravati dall’apparente inefficienza del Servizio segreto che doveva proteggerlo – orienterà la campagna elettorale, ma dà anche la misura della attuale fragilità di una nazione, malgrado la sua fin qui solida democrazia, e di un ordine internazionale che da essa in buona parte dipende. Conviene qui tralasciare tutte le ipotesi complottistiche che stanno fiorendo e continueranno per anni ad aleggiare intorno ai fatti del 13 luglio a Butler, Pennsylvania. E stare soltanto agli elementi e alle tendenze che verosimilmente origineranno dal proiettile che ha graffiato l’orecchio destro di Trump, a un centimetro da una tragedia dalle conseguenze imprevedibili. Le parole di condanna della violenza e di solidarietà alle vittime, di invito alla coesione nazionale e a limitare lo scontro alle idee senza sconfinare nel campo di battaglia suonano doverose, ma anche non risolutive. Perché hanno accompagnato pure altri eventi divisivi recenti, come l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.
E non sono riuscite a invertire una tendenza che vede nei sondaggi non pochi cittadini favorevoli all’uso delle armi per risolvere le sfide che dovrebbero essere decise nelle urne. Non è possibile attribuire il gesto criminale di Thomas Matthew Crooks alla retorica incendiaria che entrambe le parti hanno alimentato in questi anni. Il Partito repubblicano non accettando la vittoria di Joe Biden nel 2020 come legittima ha avvelenato i pozzi delle procedure imparziali diffondendo il virus del sospetto. Il Partito democratico ha demonizzato l’avversario, dipingendolo come un nemico pericoloso in assoluto per la tenuta del sistema e trasformando la competizione in una partita sull’esistenza stessa delle istituzioni liberali. Un killer (squilibrato o meno) può nascere anche nel contesto più sereno (si consideri l’omicidio in Svezia del premier Olof Palme).
Ma un tentato omicidio di questo livello è certamente un cerino accesso in quella che è da tempo una polveriera per l’ostilità reciproca fra due schieramenti sempre più polarizzati. È scontato e comprensibile che Trump capitalizzerà la vicenda a suo favore. Ha reagito bene nei momenti più drammatici e concitati; si è dimostrato fisicamente resiliente a fronte di un Biden assediato dai dubbi sulle sue condizioni mentali; ha compattato definitivamente il partito dietro di sé.
Due giorni dopo lo scampato pericolo, riletto in chiave messianica da parte della sua base evangelica – una grazia divina al prescelto per guidare la nazione – ha superato un’altra delicata inchiesta giudiziaria che lo riguarda circa le carte riservate trovare nella sua residenza in Florida. Inevitabile prevedere che il suo gradimento sia in ascesa e che nei prossimi mesi assisteremo al prevalere di una diversa narrazione nel duello tra i due aspiranti alla presidenza. Cresceranno le pressioni perché Biden rinunci a ripresentarsi e lasci il posto a un concorrente più giovane e meno compromesso con le polemiche legate all’attentato e alle falle nella sicurezza.
Tuttavia, la dialettica resterà ancorata alla minaccia che ciascuno dei due possibili futuri comandanti in capo rappresenta per l’altro versante del Paese. Una minaccia tale da non consentire che si concretizzi. Racconto che certo mobilita gli elettorati e che può però suscitare uno sconfinamento delle regole liberali, soprattutto se ci si muove in un ambiente iper-eccitato dai social media e più ricco di armi che di individui.
Alla finestra, i nemici dell’America, dalla Russia di Putin all’Iran degli ayatollah, passando per la Cina di Xi Jinping, non sono dispiaciuti dalla prospettiva di un’America spaccata e più impegnata a curare le proprie ferite interne che a presidiare lo scacchiere internazionale. Ma l’ipotesi di contraccolpi dopo il voto di novembre dovrebbe allarmare anche chi dell’America è amico e alleato. I germi della crisi politica corrono veloci come quelli delle pandemie. Più che mai è urgente pensare a contromisure adatte perché non si diffondano ancora di più. Per l’America potrebbe essere tardi, e c’è il rischio concreto che la malattia faccia il suo corso sino alla fine, con la speranza che lasci l’organismo non troppo debilitato e, soprattutto, immune da una ricaduta.