Quante persone sono morte ieri nei combattimenti in Siria? Al mattino le agenzie di stampa scrivevano 213, al pomeriggio erano diventate 1.300. Forse non lo sapremo mai. Nemmeno conosceremo il nome di quel bambino che, inerte come una bambola, viene deposto in fretta ma non senza cura in una barella e coperto da un lenzuolo bianco, accanto ad altri corpi esili come il suo. Le immagini, foto e video, diffuse attraverso i social network grazie a quello che nei manuali per gli aspiranti reporter si chiama “citizen journalism”, sono terribili. La scelta di “Avvenire”, anche nella sua edizione on line, come i nostri lettori ben sanno, è di non offrire agli sguardi lo scempio più impressionante. Di fronte a questo ennesimo sterminio, di fronte alle vittime allineate ordinatamente per terra in interminabili file, conta davvero quanti siano i caduti, se 200, 600 o 1.300? Le furiose polemiche su chi, in Siria e altrove, strumentalizza i morti e su quale divisa abbia forse ordinato di gettare il gas sui civili, rischiano di sovrastare la pena e l’orrore per le vite spezzate. Le immagini – è già successo in questa e in altre guerre – possono essere state diffuse ad arte per screditare l’avversario, il numero delle vittime può essere stato gonfiato. Resta un fatto incontrovertibile, che i dibattiti da salotto sull’uso spregiudicato dei media e dei social network nella guerra non devono far passare in secondo piano: quei bambini, quelle donne, quegli anziani, con i loro corpi che le immagini mostrano intatti, non sono morti nel sonno, o per un incidente. Nel furore delle accuse incrociate, non riduciamoli, anche noi, a pedine di distorte strategie militari. Rendiamo loro uno sguardo di pietà. Soprattutto, pretendiamo verità. E chiediamo alla comunità internazionale di non limitarsi a dottamente discutere di foto vere o false e di non rimanere a guardare l’ennesimo massacro nella martoriata Siria.