Come prima, peggio di prima. Riesplode l’Egitto e torna a infiammarsi piazza Tahrir, il luogo-simbolo della rivolta che da tre giorni ci ripresenta, in una sorta di terribile
déjà vu: le stesse immagini di scontri, barricate, incendi, violenze e sanguinosa repressione che avevano caratterizzato l’inizio della protesta popolare di gennaio, la gloriosa rivoluzione culminata con la definitiva uscita di scena di Mubarak. Ma oggi tutto appare molto più difficile e confuso poiché a fronteggiare con pugno di ferro i dimostranti – mentre il bilancio dei morti aumenta di ora in ora configurando una vera e propria strage – ci sono quegli stessi militari che dieci mesi fa venivano acclamati dalla folla come i garanti di una pacifica transizione democratica. Il fatto è che per i rivoluzionari di piazza Tahrir la caduta di Mubarak rappresentava il primo passo verso lo smantellamento del vecchio sistema autoritario. Invece per le Forze Armate, tradizionale pilastro del regime, l’estromissione del raìs era vista come il prezzo da pagare per mantenere il proprio potere. Prima o poi le due visioni, profondamente contrastanti anche se camuffate sotto gli slogan euforici del «popolo ed esercito uniti mano nella mano», dovevano entrare in conflitto. I segni di una progressiva divaricazione erano diventati sempre più evidenti. Rimangiandosi tutte le promesse, il Consiglio supremo delle Forze Armate, presieduto dal generale Hussein Tantawi, l’ex ministro della Difesa considerato dagli americani «il fedele cagnolino di Mubarak», ha prolungato e ampliato lo stato d’emergenza in vigore da trent’anni, ha posto limiti alla libertà d’espressione colpendo giornali e blogger indipendenti e, in questi dieci mesi, ha mandato sotto processo, davanti ai tribunali militari, oltre 12 mila persone, in gran parte condannate a pene detentive per aver criticato la giunta militare. Anziché accelerare il passaggio di poteri, Tantawi ha stabilito un percorso elettorale complicato e lunghissimo che dovrebbe prendere avvio il 28 novembre e concludersi in gennaio per quanto riguarda l’Assemblea del popolo, cui seguirà per altri due mesi l’elezione della Shura, la Camera alta, e quindi la creazione di un’Assemblea costituente dove l’80% dei membri dovrà essere approvato dai militari. Solo dopo l’approvazione della nuova Costituzione si procederà all’elezione del capo dello Stato, non prima del 2013.Infine, il Consiglio supremo delle Forze Armate ha fissato una serie di «principi sovracostituzionali» a difesa delle prerogative dell’esercito, considerato il garante della laicità dello Stato così come lo erano i militari turchi prima che Erdogan cambiasse le regole del gioco. Una prospettiva che ha suscitato le aspre critiche degli islamisti come i Fratelli Musulmani, finora sostenitori di Tantawi. Ma ha anche scatenato le proteste di tutti coloro che vogliono vivere in uno Stato secolare e democratico al di fuori di ogni tutela militare. Sono i giovani di piazza Tahrir, i 'laici' che rifiutano sia l’integralismo islamico che la laicità in uniforme, i cristiani copti che chiedono piena libertà religiosa ed hanno già tristemente sperimentato la repressione violenta nella domenica di sangue dello scorso 9 ottobre.Tutti costoro sono scesi di nuovo in piazza per difendere la 'rivoluzione tradita' dal colpo di stato strisciante degli uomini con le stellette guidati dal maresciallo Tantawi. Una partita ad alto rischio e piena d’incognite: c’è una sfinge al potere in Egitto, più subdola e ambigua del deposto Faraone.