Nelle prime analisi sul nuovo, terribile attentato all’aeroporto di Istanbul prevale la tesi della vendetta di Daesh contro la Turchia, colpevole di aver lungamente flirtato con i terroristi jihadisti, dapprima aiutandoli logisticamente (e molto di più) perché ritenuti utili pedine nello scacchiere mediorientale per poi mutare politica, contrastandoli. Insomma, per citare il celebre adagio, “chi semina vento, raccoglie tempesta”. Si tratta di analisi ineccepibili: alle smentite di Ankara che ha sempre negato di aver offerto una sponda importantissima al fanatismo violento sunnita non ha mai creduto nessuno.
E pur tuttavia, non bisogna mai stancarsi di sottolineare come vi sia una amara differenza fra chi il vento lo ha seminato, ossia il presidente Erdogan (ben protetto nel suo sontuoso palazzo da satrapo orientale), e chi raccoglie tempesta, ossia la gente comune. Non solo con centinaia di uccisi e feriti nell’impressionante catena di attentati di questi ultimi mesi, ma anche con migliaia di persone che stanno per perdere il lavoro quale primo effetto del crollo degli arrivi di turisti. Una conseguenza meno appariscente rispetto al computo delle vittime ma altrettanto immediata è infatti, quella che va a colpire un settore vitale per l’economia del Paese come il turismo. Da questo punto, la Turchia aveva beneficiato delle turbolenze scatenatesi con le primavere arabe cinque anni fa – che avevano quasi arrestato il flusso di turisti verso Egitto, il Levante e la Tunisia – ma ora sta a sua volta pagando pesantemente il clima di insicurezza.
I nsomma, non basta il sottolineare le responsabilità dell’establishment politico turco; dobbiamo sforzarci di comprendere il perché di questo cambio di rotta e quanto esso sia strutturale e non meramente tattico. Come ormai acclarato, Erdogan e il suo “gran consigliere” di geostrategia, l’ex primo ministro Davutoglu, avevano puntato a inserirsi nel vuoto geopolitico regionale scatenato dal minor interventismo statunitense delle presidenze Obama e dai cambiamenti provocati dalle primavere arabe. L’ambizione era di fare della Turchia – e del suo partito islamista al governo – un punto di riferimento per il Medio Oriente, aumentandone il peso regionale. Pilastri di questa strategia erano l’appoggio al movimento dei Fratelli Musulmani in tutto il mondo arabo e l’abbattimento del regime alawita di Assad in Siria. I miliziani jihadisti (delle diverse correnti, salafiti-jihadisti, qaedisti, fedeli a Daesh…) erano un utile strumento: per anni la Turchia ne ha permesso e gestito il passaggio, offrendo anche un prezioso sostegno logistico e militare. Istanbul era un centro nevralgico di questo network: all’aeroporto e al porto della città agivano – indisturbati da parte delle forze di sicurezza turche – affiliati di Daesh che ricevevano e accompagnavano sui campi di battaglia i volontari del jihad. Conseguenza di questa benevolenza erano i ricchi guadagni che derivavano dai traffici di contrabbando – soprattutto di petrolio – avviati con il califfato jihadista (e nei quali, secondo alcune ricostruzioni, è implicata la stessa famiglia del presidente). La strategia si è tuttavia rivelata fallimentare: Assad è ancora al potere, la Fratellanza musulmana è indebolita ovunque, l’arroganza e l’unilateralismo delle scelte internazionali di Erdogan hanno minato la fiducia dell’Occidente e ancor più della Nato verso la Turchia, si sono moltiplicate le incomprensioni e le inimicizie con gli altri attori regionali. Freddissimi a lungo i rapporti con Egitto e Arabia Saudita, problematici quelli con l’Iran e l’Iraq, quasi al punto di rottura quelli con la Russia, dopo l’abbattimento di un jet russo ad opera delle forze militari turche.
Lo scorso anno, così, Erdogan ha iniziato a sganciarsi dalla propria strategia: sono state concesse basi aeree in territorio turco alla coalizione anti-Daesh, le forze di sicurezza sono uscite dal loro torpore e hanno iniziato a colpire la filiera logistica jihadista nel Paese. Proprio in questi giorni – con una mossa che sarà costata molto a un uomo dall’ego così smisurato – il presidente turco ha scritto a Putin, offrendo le proprie scuse per la morte del pilota russo. Premessa necessaria per riavviare le relazioni politiche ed economiche, visto che Mosca aveva per rappresaglia bloccato gli scambi commerciali e imposto visti agli operatori economici turchi. Un tentativo di normalizzazione verso nord attuato in contemporanea al ripristino delle relazioni diplomatiche fra Turchia e Israele, interrotte da anni dopo lo sciagurato attacco israeliano contro la “flottiglia della pace” che portava aiuti a Gaza assediata nel 2010 e che aveva provocato la morte di alcuni attivisti turchi. Base dell’accordo con Israele sono la riduzione della libertà d’azione e del sostegno che Ankara offre ad Hamas e importanti progetti energetici, oltre a una evidente convergenza anti-iraniana e anti-Hezbollah, ossia gli attori – assieme ai russi – che si battono con più forza per sostenere il regime di Damasco.
Non si tratta certo di una rivoluzione copernicana della visione geopolitica regionale turca, ma di sicuro un evidente mutamento di indirizzo. Il problema quanto questo sia tattico, ossia solo figlio delle sconfitte subite nella regione o della impossibilità di resistere alle pressioni internazionali, e quanto strutturale. Erdogan ha davvero capito che l’usare l’estremismo islamico come pedina si rivela sempre disastrosamente autolesionista (come potrebbero testimoniare i sauditi, grandi fautori del salafismo, o i pakistani che hanno creato i Taliban?). Ha compreso che le sue ambizioni erano sproporzionate all’effettivo ruolo che la Turchia può giocare nella regione? L’avventurismo e le pulsione anti-democratiche di Erdogan l’hanno screditato dentro e fuori il paese. Ma il suo controllo sul sistema Turchia è ancora molto forte. Anzi, l’emergenza sicurezza – che egli cavalca in modo spregiudicato in funzione anti-curda può paradossalmente offrirgli dei vantaggi politici interni. Al momento, il riposizionamento in politica estera sembra più frutto della necessità contingente, che altro. Lo dimostra anche l’attivismo turco nella battaglia attorno ad Aleppo – forse la battaglia decisiva di questo lungo conflitto siriano – ove migliaia di miliziani di Jabhat al-Nusra (che non è Daesh, ma è pur sempre una formazione ispirata da al-Qaeda) sembrano ricevere rifornimenti dalle frontiere turche.
a solidarietà per i continui colpi inferti da terroristi, che per anni hanno potuto operare impunemente nel Paese, non deve fare velo sugli errori e sulle ambiguità del governo di Ankara. Ma neppure impedirci di vedere alcuni cambiamenti di rotta. Pronti a guardare con minore sfiducia alle prossime mosse del sultano, se egli inizierà a non smentire le proprie parole con fatti che vanno nella direzione opposta. a solidarietà per i continui colpi inferti da terroristi, che per anni hanno potuto operare impunemente nel Paese, non deve fare velo sugli errori e sulle ambiguità del governo di Ankara. Ma neppure impedirci di vedere alcuni cambiamenti di rotta. Pronti a guardare con minore sfiducia alle prossime mosse del sultano, se egli inizierà a non smentire le proprie parole con fatti che vanno nella direzione opposta.