È un attacco alla libertà, ma è anche un attacco contro l’umanità. Nulla giustifica l’atrocità che si è consumata a Parigi e nessuna offesa dovrebbe mai provocare una reazione del genere. L’azione ha tutto l’aspetto di un attacco politicoterroristico per mettere in pratica minacce da tempo lanciate contro l’Occidente. Le immagini dell’attacco rimarranno impresse a lungo nella nostra mente come un monito che ci ricorda quanto siamo stati indulgenti e permissivi nei confronti di un pericolo annunciato già da tempo. Cristiani iracheni e siriani cacciati dalla loro terra senza pietà, yazidi sepolti vivi con assurda crudeltà, donne violentate e vendute come schiave, curdi sgozzati, musulmani uccisi e persino crocifissi per le strade: un campionario di atrocità, che però non sono mai diventate icone di dolori da portare nelle piazze del mondo. Il silenzio e la sottovalutazione con cui è stato trattato finora il cancro del terrorismo hanno incoraggiato i fanatici e hanno quasi aperto loro le porte. Il pericolo da cui guardarci non è insito in una fede religiosa, ma nell’esasperazione di un sentimento religioso che finisce per annientare la ragione, anziché armonizzarsi con essa. E che vede come 'nemici' alcune conquiste che l’Europa ha saputo coniugare con la sua storia, come la laicità, la libertà e la democrazia. Sono trascorsi oramai quasi nove anni da quel 12 settembre del 2006, quando Joseph Ratzinger, tornato per un giorno professore nella 'sua' università, alzando appena lo sguardo dal testo con vezzo accademico scatenò la 'tempesta perfetta', indicando nella distorsione del rapporto tra fede e ragione la causa di tanti guai con cui il mondo musulmano continua a misurarsi. E sottolineando che «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». Pochi giorni dopo quel memorabile discorso, tanto importante quanto da troppe parti strumentalizzato, eravamo stati ricevuti dal Papa nella sua residenza estiva di Castel Gandolfo in veste di membri della Consulta islamica promossa dal ministero degli Interni italiano. Al termine dell’incontro mi feci avanti per stringergli la mano e senza esitazione gli dissi: «Grazie Santità, per averci ricordato Averroè e la sua coraggiosa lotta per riconciliare fede e ragione». Lui mi fissò negli occhi e con un mezzo sorriso di soddisfazione replicò: «Allora lo dica ai suoi!». Il filosofo e giurisperito arabo nato a Cordova nel 1126 e morto a Marrakech nel 1198, compose un lungo libro con l’obiettivo di esaminare le dottrine religiose contemporanee e verificarne la autenticità e la correttezza dal punto di vista del legislatore. Averroè si soffermò soprattutto sulle quattro correnti teologiche più diffuse ai suoi tempi, iniziando dai mu’taziliti che cercarono di coniugare la logica ed il razionalismo con le dottrine dell’islam; puntò in seguito la sua attenzione sulla teologia speculativa degli ash’ariti che diversamente dai primi ritenevano che la ragione e la ricerca eseguita con gli strumenti umani non avrebbero potuto condurre alla comprensione di Dio; proseguì il suo studio conoscitivo approfondendo gli elementi del sufismo, una forma di ricerca mistica tipica degli islamici, e infine terminò il suo giro d’orizzonte con la corrente religiosa più vicina al fondamentalismo a lui contemporaneo che durante l’ondata di fanatismo religioso che attraversò l’Andalusia alla fine del XII secolo lo costrinse all’esilio a Marrakesh. Per salvarci, e prima che sia troppo tardi, abbiamo tanto bisogno di dare spazio alla ragione per interpretare in maniera adeguata il testo sacro e farne un punto di riferimento per la vita personale e sociale, guardando a chi è diverso da noi non come un rivale, ma come un compagno di cammino.