Sembra un film ma non lo è. Un gruppo di ribelli web colpisce siti e profili social dei terroristi islamici dell’Is, minacciandoli: «Sarete trattati come un virus informatico. E quindi, spazzati via». Quella che però può apparire come una sorta di favola moderna – con dei ragazzi 'contro' che si trasformano in buoni e salvano il mondo – è molto più complicata di quello che appare. Innanzitutto, perché gli attori in campo non sono così chiari. I buoni sarebbero gli appartenenti al collettivo Anonymous. Ma dal 2000 – anno della sua prima apparizione 'ufficiale' – la sigla Anonymous è stata usata in modo molto vario per identificare singoli o gruppi di hacker. È un arcobaleno indefinito. «Siamo ebrei, cattolici e musulmani; spie e attivisti», hanno dichiarato nelle ultime ore. Il che non spiega nulla. Anzi, confonde le acque. Non a caso, gli esperti non escludono che all’attacco ai profili social dell’Is abbiano partecipato anche reparti militari. La cyberguerra, infatti, è antica quanto i computer. E prima ancora – ai tempi della Seconda guerra mondiale – si chiamava guerra elettronica. Allora come oggi si intraprende anche e soprattutto per due motivi: costa meno di quella tradizionale e può fare molti più danni al nemico. In più, nel caso dell’Is, il web è diventato il nuovo terreno di propaganda e quindi di scontro. Sono la Rete e i social network (soprattutto Twitter) una delle armi utilizzate dai terroristi islamici. Controllare questo spazio, quindi, equivale a dimostrare chi comanda. Non a caso Anonymous ha ora annunciato di dare la caccia al leader della propaganda jihadista. Abituati come siamo tutti i giorni a vedere sfilare davanti ai nostri occhi la guerra convenzionale, rischiamo di dimenticarci che nel mondo sono in corso da tempo molte altre battaglie elettroniche. Non è un caso che Israele e Stati Uniti stiano investendo cifre da capogiro nelle difese informatiche. E che Iran, Russia e Cina abbiano (come la Siria e la Corea del Sud) alcuni dei cyber-guerrieri più forti in circolazione. Secondo il Center for Strategic and International Studies di Washington, la cyber guerra fa girare tanti soldi quanti il traffico mondiale di droga: «l’1% del Pil mondiale». Quella in corso, quindi, è una guerra vera, non un gioco da ragazzi.