Il delicato nodo nell’intricata vicenda del ddl Cirinnà In questi giorni di intensa discussione sulle unioni civili e il ddl Cirinnà vi è un tema che, nonostante veli e cortine fumogene, sta emergendo come centrale e che, infatti, questo giornale indaga e propone da tempo. È la questione dell’utero in affitto, che riveste un’importanza immensa in ordine ai diritti umani e che coinvolge in maniera profonda i destini del nascituro, della madre a pagamento e dei committenti. Non c’è chi non veda che, una volta varate le unioni civili omosessuali, un numero più o meno grande di queste si rivolgerà ai Paesi in cui la maternità surrogata è legale per 'prenotare' un bambino. Poi si cercherà di aggirare, come del resto è già avvenuto, il divieto italiano di utero in affitto chiedendo la trascrizione del bambino come 'proprio' figlio. Sinora diverse sentenze della magistratura hanno sorvolato sulla surrogazione di maternità, affidando il bambino alla coppia che lo ha commissionato. Di fronte a una situazione di questo tipo e di questa evidente gravità, la senatrice che ha strutturato il ddl, Monica Cirinnà, e varie altre espressioni della politica e della società civile (si veda un recente appello firmato da un gruppo di avvocati, docenti e magistrati) oppone l’idea che la questione dell’utero in affitto è e deve rimanere estranea al suddetto ddl perché già vietata dalla legge 40. Una risposta di questo genere non è fatta per tranquillizzare e sembra mirata a distogliere l’attenzione dal problema e ad evitare che si entri nel merito. Probabilmente l’orientamento a tralasciare nel ddl la surrogazione di maternità presuppone un’accettazione della pratica. Inoltre esso può prefigurare obliquamente future iniziative legislative per portare alle nozze omosessuali e al riconoscimento del 'diritto al figlio' comunque ottenuto. Una legge sulle unioni civili improntata a giustizia non può nascondersi dietro interessati silenzi, che finiscono per trasmettere l’idea che non ci si voglia realmente opporre all’utero in affitto. La legge dovrebbe includere rigorose misure per sanzionare la pubblicità a favore della maternità surrogata, l’intermediazione praticata da agenzie e cliniche, e i fruitori stessi della pratica. L’utero in affitto va considerato come un crimine contro la persona (della madre surrogata e del bambino prenotato) e un reato universale da perseguire ovunque (come sollecita anche il documento varato martedì scorso dai partecipanti al Convegno internazionale promosso dal movimento femminista all’Assemblea Nazionale di Parigi): l’aspetto più appariscente, ma tutt’altro che unico, di questa pratica schiavistica è l’introduzione del mercato capitalistico nell’area delicatissima della generazione umana. Emendamenti in merito sono stati presentati da un gruppo di senatori dem, ma nell’attuale bagarre non si sa che esito avranno. Anche l’ex segretario del Pd, Pierluigi Bersani, aveva fatto cenno a un «divieto rafforzato» dell’utero in affitto, senza peraltro specificare in che senso. Il direttore di questo giornale in dialogo con esponenti politici e della società civile ha invece sottolineato la necessità di un «divieto insuperabile» che d’ora in poi scoraggi totalmente quello che definisce un «commercio disumano». A mio avviso, tale divieto dovrebbe significare due cose: aumentare le sanzioni per la pratica ovunque messa in atto, e vietare la trascrizione in Italia del nato da utero in affitto. Su questi e altri aspetti vitali del ddl non poco dipenderà dalle dinamiche in corso entro il Pd. In merito il capogruppo Luigi Zanda ha informato che presto il partito indicherà i temi su cui sarà permessa la libertà di coscienza. Nonostante l’espressione non sia tra le più felici, si può confidare che l’area in cui essa verrà esercitata sia la più ampia possibile, sino a coinvolgere non solo singoli emendamenti, ma il voto finale, considerata l’estrema importanza e delicatezza della posta in gioco.