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«La grande lezione che viene dall’Italia è che la sostenibilità dei sistemi sanitari dipende dalla sostenibilità demografica». Francesco Longo, docente di Management pubblico all’Università Bocconi di Milano, interverrà domani all’incontro “Universalità e sostenibilità dei Servizi sanitari nazionali in Europa” che si svolgerà alla Pontificia Università Lateranense, promosso dalla Commissione episcopale per il Servizio della carità e la salute e dall’Ufficio nazionale per la Pastorale della salute della Conferenza episcopale italiana in collaborazione con undici Federazioni e consigli nazionali che coprono tutta la gamma delle professioni sanitarie. «Se non si riesce a mantenere in qualche modo l’equilibrio demografico, sarà inevitabile restringere il perimetro dei diritti sanitari o abbassare gli standard».
Quali sono i principali problemi che affliggono il nostro Servizio sanitario nazionale (Ssn)?
Il principale problema di sostenibilità dipende dal nostro squilibrio demografico. Oggi in Italia ci sono 14 milioni di pensionati e 7 milioni di bambini. Siamo il secondo Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone con il 24% della popolazione over 65: l’ultimo dato Istat indica che 64 anni è l’età media in cui si va in pensione. Oggi abbiamo 1,6 lavoratori per ogni pensionato: questo rapporto peggiorerà gradualmente e nel 2050 diventerà uno a uno. Il che significa una base imponibile inferiore per pagare la sanità, e più anziani, che sono i grandi portatori di domanda sanitaria. Lo squilibrio demografico dipende anche dal fatto che siamo uno dei Paesi al mondo con la più bassa fecondità, 1,2 figli per donna, e con una delle più alte speranze di vita al mondo, 84 anni. C’è un apparente paradosso: il nostro Ssn è così efficace che fa vivere le persone a lungo, ma poiché vivono a lungo la spesa pensionistica continua a crescere e “spiazza la spesa sanitaria”. Nel periodo 2023-2027 la spesa pensionistica crescerà di 50 miliardi.
La quota di spesa sanitaria in rapporto al Pil è insufficiente?
In Europa, tra i grandi Paesi, quello che spende meno in sanità è il Regno Unito: il 9,5% del Pil, mentre Francia e Germania sono all’11%. Noi ci fermiamo al 6,3%. Viceversa spendiamo di più in pensioni: l’Inps, oltre ai contributi dei lavoratori, per essere in equilibrio riceve 165 miliardi dallo Stato. Mentre il Fondo sanitario nazionale ne riceve 136. Fatta 100 la spesa del welfare italiano, il 50% va in pensioni, mentre negli altri Paesi europei siamo al 35%. Questo spiega perché la nostra spesa sanitaria è così bassa.
Quali sono le conseguenze?
L’Italia fa l’errore di dichiarare l’universalismo totale dedicando solo il 6,3% del Pil alla sanità. Dichiariamo per legge – ma anche nelle aspettative e nei discorsi politici, e in maniera bipartisan (Regioni amministrate da destra e da sinistra) – che saranno azzerate le liste d’attesa. Invece dovremmo fare un universalismo sostenibile: dire cosa garantiamo e cosa no, realisticamente. Promettendo tutto a tutti, in realtà solo i soggetti socialmente più forti ottengono le prestazioni. Questo si ripercuote anche sugli esiti di salute: secondo i dati Istat chi ha una patologia cronica (ipertensione, scompenso, nefropatia, diabete) se ha la quinta elementare è in buona salute nel 30% dei casi, se ha la laurea nel 65%. Un altro dato: oggi su 100 ricette prescritte, trenta non trovano la prestazione. Cioè prescriviamo il 30% in più di quello che sappiamo produrre.
Cosa significa nel concreto l’universalismo sostenibile?
Oggi vengono garantite le visite specialistiche pagando il ticket a metà degli italiani che ne hanno bisogno, l’altra metà sono a pagamento. Ma tra le due grandi categorie, i malati cronici e gli utenti occasionali, non c’è una vera distinzione: accesso al Ssn o a pagamento privato è casuale. Ci sono utenti occasionali che pagano, altri che ricevono gratis; alcuni malati cronici che pagano e altri no. Se la coperta è corta, cioè se ho la capacità di coprire solo metà delle visite, dovrei garantirle ai cronici, che sono già palesemente malati, e far pagare gli occasionali.
Occorre ridefinire i Livelli essenziali di assistenza (Lea)?
Se metà delle visite ambulatoriali finiscono con essere pagate significa che i Lea sono un po’ finti, una narrazione. Dovremmo definire Lea veri, che ci possiamo permettere. E poi ridefinire gli standard assistenziali, stabiliti oltre 20 anni fa quando le tecnologie e le competenze erano altre. Per esempio: per fare una radiografia la legge prescrive che debba essere presente un medico radiologo. Ma a lavorare sono la macchina e il tecnico di radiologia. Per fare una colonscopia è obbligatoria la presenza di un anestesista, ma il gastroenterologo è in grado di effettuarla da solo. Sarebbe meglio riservare l’anestesista alla sala operatoria e accorciare le liste d’attesa chirurgiche. C’è un po’ di rischio? Certo, però la coperta è corta e bisogna decidere da che parte si rischia di più: forse a non operare le persone.
Per garantire più prestazioni serve un miglior equilibrio demografico?
Esatto. È un problema di tutta l’Europa, ma noi abbiamo la situazione peggiore. Credo che ci siano solo tre strade: fare più figli, ma i giovani europei non sembrano disponibili. Portare più immigrati, come hanno fatto Germania, Francia e Regno Unito, ma regolando bene i flussi migratori. Il che significa far venire giovani coppie, come ha fatto la Germania con un milione di immigrati siriani giovani in coppia. Invece noi facciamo venire singoli di etnie diverse: maschi africani e donne dell’Est europeo, pur avendo una cultura avversa alle coppie miste. La terza via è riequilibrare le persone che lavorano e i pensionati: cioè andare in pensione molto più tardi. Altrimenti si deve incidere sulle prestazioni.
In che modo?
Se non si aggiusta l’equilibrio demografico, occorre ridefinire un perimetro più stretto di diritti sanitari, oppure abbassare gli standard assistenziali delle prestazioni. O una combinazione delle due soluzioni. E con il nostro andamento demografico bisogna affrontare anche la questione dell’assistenza agli anziani.
A che cosa si riferisce?
Molti Paesi europei hanno separato le cure a lungo termine o assistenza ai non autosufficienti dall’assistenza sanitaria. Il caso più nitido è quello tedesco: è stato creato un nuovo pilastro, come l’Inail per gli infortuni sul lavoro. Ogni lavoratore paga il 2,5% del suo reddito lordo per finanziare la mutua della terza età, che poi lo assisterà per i suoi bisogni sociosanitari, con altre strutture, altri dipendenti, altre fonti di finanziamento. In Italia abbiamo 4 milioni di non autosufficienti e solo 280mila posti in Rsa, il 7% di quanto serve. Se calcoliamo due caregiver per ogni persona non autosufficiente, vediamo che il problema riguarda 12 milioni di persone, un quinto della popolazione. Scarichiamo tutto il peso assistenziale sulle famiglie, e ogni tanto ricoveriamo i non autosufficienti in ospedale, una risposta sbagliata: costano 400 euro al giorno, mentre sarebbero 100 in una Rsa. Un altro problema enorme e crescente, che va affrontato in maniera distinta dalla sanità.