L'aula del Senato - Imagoeconomica
Venerdì 25 ottobre, il Centro studi Livatino (Csl) ha organizzato a Roma nella sede dell’Istituto Sturzo, l’evento Accompagnare nel fine vita, disponibile sul canale YouTube dell’Istituto ospite. Nel corso dell’evento si è presentata una Nota sui contenuti di un possibile intervento legislativo sul fine vita, a breve disponibile su www.centrostudilivatino.it/.
Il documento prende le mosse da un richiamo alla giurisprudenza costituzionale sul tema del diritto alla vita, primo dei diritti fondamentali e presupposto per il godimento di tutti gli altri.
Il diritto alla vita, per la Corte costituzionale, appartiene ai diritti inviolabili della persona che occupano una posizione privilegiata in quanto intrinsecamente legato all’essenza dei valori supremi su cui si fonda la Costituzione.
Nella Nota, si passano, quindi, a illustrare le ragioni che conducono l’ordinamento italiano a qualificare come indisponibile il diritto alla vita, così come si evince dagli articoli 579 e 580 del Codice penale che puniscono l’omicidio del consenziente e l’istigazione e l’aiuto al suicidio.
Dire che la vita è indisponibile significa fare un giudizio incondizionato di valore secondo cui ogni vita umana merita di essere conservata perché è un bene a prescindere dalle condizioni in concreto del soggetto.
Se, al contrario, con la legalizzazione e la depenalizzazione, anche parziale, del suicidio assistito, il diritto alla vita fosse disciplinato in modo da renderlo disponibile, pur a determinate condizioni e nel rispetto di una determinata procedura, la vita, ogni volta che fossero integrate tali condizioni, non sarebbe più ritenuta meritevole di tutela. Sarebbe così violato non solo il diritto alla vita, ma anche l’uguaglianza.
Il documento del Csl, preso atto che la sentenza n. 242/ 2019 della Corte costituzionale ha introdotto una deroga all’indisponibilità della vita, ritiene possibili due tipi di interventi.
Il primo riguarda la legge n. 219 del 2017, posto che l’introduzione di un’ipotesi di non punibilità dell’aiuto al suicidio è stata resa possibile a causa di un’ambiguità della legge n. 219, il cui articolo 1 assegna al malato un diritto soggettivo alla rinuncia o al rifiuto del trattamento necessario alla sopravvivenza.
Anche se il comma 6 prevede che il paziente non possa esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, l’attuale formulazione del comma 5, non facendo alcun richiamo alla beneficialità della cura come limite all’autodeterminazione, apre a una possibile applicazione della disciplina in chiave eutanasica.
È, quindi, auspicabile che si escluda una simile lettura della legge n. 219. Il Parlamento potrebbe, pertanto, intervenire sul comma 6 dell’articolo 1, prevedendo che il paziente non possa esigere trattamenti sanitari né l’interruzione del trattamento quando gli uni e l’altra siano contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali.
Sul piano penale, la conservazione della indisponibilità della vita è inconciliabile con la non punibilità del suicidio assistito, pur nei casi eccezionali previsti nella sentenza n. 242. Una via coerente con l’indisponibilità della vita è, invece, quella di compiere un’eventuale modifica sulla disciplina sanzionatoria che preveda, come fa il Ddl n. 1083 del Senato (Zanettin, Gasparri e altri), un’attenuazione della pena quando l’aiuto al suicidio è prestato in situazioni connesse alla sofferenza del malato e al turbamento che la sofferenza ingenera nei conviventi.
Sarebbe questa una legittima scelta del legislatore, volta a porre rimedio alla incompletezza di tutela penale successiva alla sentenza n. 242 che ha introdotto un’ipotesi di non punibilità sulla base di un’equiparazione tra interruzione della cura e richiesta di aiuto a darsi la morte, criticata dallo stesso Comitato nazionale per la Bioetica nel Parere del 2019.
Centro Studi Livatino