sabato 11 maggio 2024
È coordinatore infermieristico al Centro Clinico NeMo di Milano. «C'è sempre da imparare e questa è una delle fortune della nostra professione»
Pietro Perego, caposala di NeMo Milano

Pietro Perego, caposala di NeMo Milano - Foto AiSla

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«Io l'ho vissuta sempre un po' come una sfida a migliorare, come una scuola di vita». Sembra quasi di poter stringere tra le mani l’entusiasmo di Pietro Perego. La “scuola di vita” di cui parla è il centro clinico NeMo di Milano, dove è coordinatore infermieristico da un anno e mezzo. «Ti rendi davvero conto che hai un compito importante e nonostante le fatiche della professione hai delle responsabilità». Perego a che fare quotidianamente con persone con malattie complesse. NeMo è, infatti, una struttura ad alta specializzazione dove sono presi in carico pazienti affetti da malattie neuromuscolari come la Sclerosi Laterale Amiotrofica (Sla), le distrofie muscolari e l’Atrofia Muscolare Spinale (Sma). «Sono per lo più malattie degenerative per cui molto spesso incontriamo le persone nel momento della diagnosi e le accompagniamo fino alla fine della loro vita», sospende appena per qualche secondo il discorso, per poi ricaricarlo di passione. «Ma li accompagniamo con un'attenzione che a me ha sempre colpito, ed è ciò che mi ha sempre un po' tenuto attaccato a questo posto».

L'équipe infermieristica di NeMo Milano guidata da Pietro Perego (terz'ultimo a destra) con un paziente

L'équipe infermieristica di NeMo Milano guidata da Pietro Perego (terz'ultimo a destra) con un paziente - Foto AiSla

In quel posto, in quella scuola di vita, lui c’è dal giorno uno. «Dopo la laurea, nel 2007 ho fatto un colloquio per entrare in questo nuovo reparto che era in costruzione. Il primo paziente è arrivato il 28 gennaio 2008». E in qualche modo Perego è cresciuto insieme a NeMo. «Siamo partiti che eravamo in pochissimi e adesso siamo un centro di riferimento con 340 professionisti su tutto il territorio nazionale. È diventato veramente un posto dove c’è un tentativo di presa in carico totale e in cui si risponde sempre più al bisogno completo della persona». Un percorso che viene affrontato accogliendo non solo il paziente ma tutta la famiglia a 360 gradi. La malattia non è solo dell'individuo, ma spesso e volentieri coinvolge tutte le persone che ci sono attorno», racconta Perego.

«Io mi sono innamorato da subito dei pazienti con la Sla. Uno dei miei primi pazienti è stato Stefano Borgonovo, l'ex giocatore del Milan. Spronava me e i colleghi a lavorare sempre al meglio: con il comunicatore ci diceva chiaramente quando secondo lui avremmo potuto fare di più», accarezza le parole mentre dà voce ai ricordi. «Perché se non sei totalmente in quell'istante a voler dare il massimo, il paziente che stai trattando, a cui stai dando assistenza, se ne accorge. E la nostra fortuna è stata quella di incontrare malati che poi sono diventati amici, perché uno che ti sprona a far meglio non è altro che una persona amica». E, in fondo, il volersi migliorare è lo stimolo e il motore che da anni mantiene accesa la sua passione. «Sono riuscito anche a crescere professionalmente con l'idea di far del bene per i nostri pazienti. Ad esempio, dato che è molto difficile prendere le vene ai pazienti neuromuscolari, ho deciso di fare un corso per usare l’ecografo e quindi riuscire a “bucarli” meno volte». Per Perego sono occasioni per crescere: «C'è sempre da imparare e questa è una delle fortune della nostra professione, che non è mai un “sono arrivato e oltre questo non posso fare”. Se ci si tiene aggiornati, se si studia se si guarda agli altri che fanno meglio, c'è sempre qualcosa da imparare».

Anche il nuovo incarico da coordinatore, dopo 15 da turnista, è una sfida. «Mi si sono ribaltate le responsabilità. Se prima la domanda di attenzione era unicamente sul paziente, ora devo pensare anche al bene dei miei infermieri e dei miei operatori socio-sanitari. Tutte le mattine entro in reparto e dico: “Oggi faccio di tutto perché i miei colleghi abbiano tutto quello che è necessario per dare il massimo con questi nostri malati”». Cambia la prospettiva, ma non la passione. «È sempre uno stimolo a prendere seriamente quello che mi quello che mi hai dato tutti i giorni. Bisogna rispondere a quello per cui si è chiamati a fare. E io voglio giocarmela tutta, voglio essere umanamente presente in quello che devo fare».

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