Filippo Turetta durante l'interrogatorio. In primo piano, di spalle, Gino Cecchettin - Ansa
«Ho ucciso Giulia perché non voleva tornare con me, provavo risentimento, rabbia, non lo so…. Sentivo di aver perso per sempre la possibilità di tornare insieme. Ho percepito la possibilità di perdere il rapporto. Volevo tornare assieme a lei, soffrivo molto e provavo risentimento verso di lei». È il momento cruciale dell’interrogatorio di Filippo Turetta, davanti alla corte d’Assise di Venezia. A pochi metri dal giovane, che Giulia Cecchettin un anno fa ha massacrato con 75 coltellate per poi buttarne il corpo in un dirupo e coprirlo con dei sacchi di plastica, c’è il padre della ragazza, Gino. Lo guarda dritto negli occhi per tutto il tempo, mentre lui, Filippo, gli occhi li tiene bassi, incespica nelle parole, si agita, piange persino. Le frasi, ai fini del processo, sono una confessione piena di premeditazione del delitto, ma hanno il potere di spiegare in maniera semplice, quasi disarmante, tutto quello che c’è da sapere sull’origine della violenza di genere e dei femminicidi, cioè su ciò che viene definito “patriarcato” (non senza che qualcuno storca il naso sostenendo, giustamente, che i padri e il ruolo dei padri di famiglia non c’entrano nulla col male che affligge la società moderna).
«L’ha uccisa perché è malato», «l’ha picchiata in preda a un raptus», «non sapeva quel che faceva», «non era in sé»: quante volte abbiamo sentito ripetere queste, di frasi, persino dal padre dello stesso Filippo, che nel tentativo di evitare che potesse togliersi la vita in carcere ha cercato maldestramente di mitigare la sua sofferenza in un colloquio reso pubblico e diventato un atto di accusa nei confronti di una famiglia già segnata da un dolore insopportabile. E invece no: «L’ho uccisa perché non voleva tornare con me...», cioè perché «non era più cosa mia». Per quel pensiero radicato nella sua testa di “bravo ragazzo” 24enne e ancora in larga parte nella nostra cultura - che vogliate chiamarlo patriarcato o maschilismo poco importa - secondo cui il ruolo dei maschi, appunto, è superiore in possesso di potere e privilegio economico e le donne, come tutto il resto, agli uomini appartengono come proprietà: inalienabili, inscindibili, sottomesse, dipendenti. Pena l’impossibilità di esistere altrimenti, ovvero la morte. È il copione scritto per ogni femminicidio o quasi, anche quelli - è il caso per esempio altrettanto drammatico di Giulia Tramontano - in cui il killer non uccide per amore (amore malato, s’intende), ma per liberarsi di una donna che sempre alla stregua di una cosa viene considerata, stavolta però pesante, ingombrante, fastidiosa.
«Vado via, non ho bisogno di restare, ho capito chi è Filippo Turetta» ha commentato Gino Cecchettin alla fine dell’udienza, equilibrato come quel giorno di novembre in cui salì sul palco a Padova, dopo i funerali della figlia, per pronunciare un discorso straziante e bellissimo in cui si rivolgeva agli uomini (per chiedere loro di cambiare), ai genitori (per pregarli di insegnare ai propri figli ad accettare le sconfitte) e alle istituzioni (per chiedere leggi decisive sulla violenza di genere e programmi educativi nelle scuole). Chi è Filippo Turetta, però, dovrebbero capirlo tutti quanti: le adolescenti alle prime storie d’amore coi propri coetanei quando questi ultimi chiedono loro di controllare i messaggi sul telefono, o di non uscire, di non andare a studiare in un’altra città; gli adolescenti che lo fanno pensando in questo modo di essere più forti, o più amati, o più “maschi”; le mamme e i papà che se ne accorgono e si ripetono che “sono cose da ragazzi, lasciamo che se la sbrighino da soli”; gli insegnanti che quelle ragazze e quei ragazzi vedono seduti tutti i giorni tra i banchi di scuola, dimenticando che per farli diventare grandi serve educarli anche alle relazioni oltre che alla matematica e alla geografia.