La recente sentenza della Corte di Cassazione sull’operato di alcuni medici dell’Ospedale San Giovanni di Roma deve suscitare qualche riflessione, proprio alla luce del dibattito sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, che sta arrivando al capolinea.Prescindiamo dal caso specifico, di cui non conosciamo gli atti, e sgombriamo il campo da malintesi: l’accanimento terapeutico è azione moralmente e deontologicamente illecita e professionalmente sbagliata. Quindi, da condannare.Riaffermato con rigore questo principio, sancito dagli articoli 16 e 18 del Codice di deontologia medica, esige risposta un’altra domanda: e l’eutanasia?, che alcuni vorrebbero far rientrare fra i "diritti" del cittadino.Anche l’eutanasia è vietata e condannata da un apposito articolo del Codice deontologico (17) e anche per essa vale la norma che non può essere legittimata dalla esplicita «richiesta del malato».La Corte ha sentenziato che un eventuale consenso informato del paziente che autorizzi (o, addirittura, richieda) un trattamento sanitario avente le caratteristiche tecniche dell’accanimento terapeutico deve essere considerato privo di valore, perché certamente condizionato e «inquinato» dallo status emotivo del paziente, che potrebbe avere mille motivi (personali, familiari, economici, ecc.) per sperare di poter allungare, anche di poco, la propria vita.Mi chiedo se tutto ciò non possa essere applicato, senza cambiare una sola virgola, alla fattispecie dell’eutanasia e del suicidio assistito. Perché va condannato l’«accanimento sul consenziente» e, al contrario, andrebbe legittimato con la dignità del diritto l’«omicidio del consenziente»?Ma c’è di più. Nel caso di cronaca risulta che vi sia agli atti un documento scritto di consenso informato, effettivamente stilato dalla paziente. La Corte lo ha ritenuto «non valido», per le ragioni di cui sopra: il consenso informato non può essere né l’alibi che scagiona il medico dalle sue responsabilità deontologiche né l’imperativo che lo vincola a essere il mero esecutore della volontà del paziente. Alla luce di tutto questo, tornare con la memoria al caso di Eluana Englaro è ancora più doloroso. Si fa davvero tanta difficoltà a comprendere come un altro giudice, in un altro tribunale, abbia considerato valida la ricostruzione
de auditu (cioè, presumibilmente, di dichiarazioni orali riportate da altri) di una volontà non scritta in prima persona, rilasciando l’autorizzazione a sospendere il sostegno vitale a una giovane gravemente disabile, morta dopo pochi giorni.Ma c’è dell’altro. Ed è un’aggravante: considerato che la medicina non è una scienza matematica e spesso si ottengono risultati clinici imprevedibili e inaspettati, può accadere che un «accanimento» possa nei fatti risultare davvero utile al paziente. Ciò non potrà mai accadere per l’eutanasia: è un atto senza appello, una vita tolta è tolta per sempre.Il «principio di autodeterminazione» – ha implicitamente detto la Suprema Corte – non può, quindi, essere assoluto, ma deve essere contestualizzato entro la «relazione di cura», fra medico e paziente. Il primo valuta con rigore il dato tecnico-clinico, il secondo esprime legittimamente tutti i suoi desiderata: il tutto nella prospettiva del maggiore benessere possibile per la salute e la vita del malato. Ben venga, allora, una legge – la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) presto al voto della Camera – che definisca con la massima chiarezza possibile proprio la relazione di cura e il consenso informato, e che – condannando tanto l’accanimento quanto l’eutanasia, diretta od omissiva, magari ottenuta in modo surrettizio attraverso la sospensione delle cure di sostegno vitale – ribadisca il valore della vita come bene indisponibile, tanto al medico e alla medicina, quanto al malato e alla società.