sabato 31 marzo 2018
Il 3 aprile è il termine entro cui il governo deve costituirsi con l'Avvocatura dello Stato per difendere davanti alla Consulta la legge contro l'aiuto al suicidio. Parla l'ex presidente della Corte.
Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale

Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale - Agenzia Romano Siciliani/s

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L’aiuto al suicidio va sempre punito? Oppure ci sono situazioni nelle quali non è reato? La questione, che pareva di per sé improponibile, lo è diventata col processo a Milano nel quale il dirigente radicale Marco Cappato è accusato di aver agevolato il suicidio assistito in una struttura specializzata svizzera di Fabiano Antoniani (dj Fabo) il 27 febbraio 2017. Il Tribunale, orientato ad assolvere Cappato, ha però chiesto alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sulla questione. Di prassi, il governo dà mandato all’Avvocatura dello Stato di "difendere" la legge, in questo caso su un punto critico come la tutela della vita umana. Il termine per farlo scade martedì 3 aprile: sarà rispettato? Non lo facesse, il governo – pressato dall’Associazione radicale Luca Coscioni – darebbe luogo a una vistosa mancanza. Lo pensa, tra gli altri, l’ex presidente della Corte, Cesare Mirabelli.


Perché il governo dovrebbe costituirsi?
L’Avvocatura dello Stato interviene solitamente nei giudizi di legittimità costituzionale non solamente per "difendere" un interesse rappresentato dal governo ma anche per assicurare nelle questioni di maggiore rilievo la dialettica che è opportuno caratterizzi ogni procedimento giurisdizionale. Ciò è particolarmente rilevante in questo caso. Le questioni di legittimità costituzionale proposte dall’ordinanza della Corte di assise di Milano hanno aspetti tecnici, che riguardano anche la sua ammissibilità, problemi interpretativi e alternative nelle soluzioni. Sarebbe quindi singolare se mancasse la voce indipendente dell’Avvocatura, che consente un giusto approfondimento delle questioni. È singolare anche che si voglia avere nel processo una sola voce, senza che sia possibile prospettare tesi diverse, che sempre aiutano ad approfondire i problemi e a trovare corrette soluzioni.


Chi ne chiede la cancellazione parziale ritiene che l’articolo 580 è il frutto di una concezione sorpassata. È così ?
Quando si sottolinea che si tratta di norme del "Codice Rocco", frutto di una concezione autoritaria del diritto, ricorderei che il Codice liberale Zanardelli prevedeva che «chiunque determina altri al suicidio o gli presta aiuto è punito, ove il suicidio sia avvenuto, con la reclusione da tre a nove anni». Al di là di differenze marginali, il bene protetto mi pare lo stesso: la tutela della persona – particolarmente quella più fragile – e della vita, nella prospettiva di farsi carico di chi è in difficoltà.


Il Tribunale di Milano argomenta che esisterebbe una libertà di morire da rispettare e accordare. Come giudica questa tesi?
Non posso valutare i fatti oggetto del giudizio, perché non conosco gli atti del processo e ogni particolare può portare a qualificare diversamente la condotta delle persone. Dall’ordinanza rilevo che il giudice di Milano, per sollevare le questioni di legittimità costituzionale, si è discostato dall’interpretazione della norma penale fatta di recente dai giudici di Messina, Vicenza e Venezia, che pure considera non in contrasto con la Costituzione, per far leva su una decisione della Cassazione del 1998, che offre un’interpretazione molto ampia delle condotte previste dalla norma penale. Quanto alla libertà di morire, ricordo che le convenzioni internazionali sui diritti umani affermano il diritto alla vita, all’integrità fisica e psichica di ogni persona e non il diritto alla morte. In ogni caso la questione è mal posta: la libertà di morire implica la pretesa che altri determinino o agevolino la morte, o rende legittima la cooperazione al suicidio? Sarebbe allora legittimo cagionare la morte con il consenso di chi la subisce ? Altra cosa è se è legittimo rifiutare atti medici dai quali dipende la vita, e se sia possibile prestare assistenza che allevi il dolore nel sopraggiungere della morte naturale.


Cosa potrebbe comportare l’accoglimento dalla Consulta della richiesta dei giudici milanesi?
Non è possibile prefigurare la decisione della Corte, e comunque non lo farei. Osservo che il ventaglio delle possibili decisioni è molto ampio. Dalla inammissibilità, al rigetto delle questioni di legittimità costituzionale, a una corretta interpretazione della norma penale, all’accoglimento. Ancora una volta si mostra come sia opportuno l’intervento dell’Avvocatura dello Stato e l’ascolto delle argomentazioni, anche tecniche, che può proporre. Sotto l’ultimo aspetto osservo che le conclusioni dell’ordinanza della Corte d’assise di Milano sono molto più ristrette della molto ampia motivazione. I dubbi di legittimità costituzionale proposti riguardano due aspetti: le condotte di aiuto al suicidio, quando non rafforzino il proposito, e la quantificazione della pena, che non distingue tra le condotte di istigazione al suicidio e l’agevolazione che non incida sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida. Per giungere a questi due punti si costruisce l’impalcatura della libertà di scegliere come e quando morire.


La combinazione della legge sul biotestamento e di una sentenza assolutoria nel processo Cappato, con eventuale dichiarazione di incostituzionalità di parte dell’art. 580, a quali esiti potrebbe dare luogo?
La legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento prevede che ogni persona ha il diritto di rifiutare il trattamento sanitario indicato dal medico e può revocare il consenso anche quando ciò comporta l’interruzione del trattamento stesso. Questo è in linea con la Costituzione: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario» (articolo 32). Se il mantenimento della vita dipende da quel trattamento medico, e dal rifiuto segue la morte, non c’è responsabilità del medico o di altri. Se vi è prognosi infausta a breve termine o imminenza di morte, in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico, con il consenso del paziente, può ricorrere alla sedazione palliativa profonda associata alla terapia del dolore. È questa la risposta che la legge dà ai problemi sollevati dalla vicenda nella quale sono stati posti i problemi di legittimità costituzionale.


La libertà di disporre del proprio fine vita riconosciuta dalla legge sulle Dat conosce limiti applicativi (e in sede giudiziaria) oppure è assoluta e insindacabile?
La legge pone un limite all’ostinazione irragionevole o al ricorso sproporzionato alla somministrazione delle cure ed esclude parallelamente l’abbandono valorizzando la terapia del dolore, che pure richiede il consenso del paziente. La sedazione palliativa profonda è ammessa in caso di prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, che sopravviene naturalmente. Non siamo nell’ambito del suicidio e della libertà di determinare la propria morte. Del resto il Codice di deontologia medica prevede che «il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte».

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