E’ nato pochi giorni fa alla 32esima settimana di gravidanza, con un peso di appena un chilo e 800 grammi, il figlio di una donna svedese di 36 anni priva di utero per una malformazione congenita, cui era stato impiantato quello di un’amica sessantenne da tempo in menopausa che aveva deciso di donarglielo. La notizia, rilanciata dalla rivista scientifica internazionale «The Lancet», ha fatto rapidamente il giro del mondo e campeggia nei principali siti informativi come una indiscussa novità positiva. Ma gli interrogativi etici che apre sul rapporto tra tecnomedicina e generazione della vita sono numerosi. A cominciare dall’invasività dell’operazione di espianto e reimpianto di un utero – tutt’altro che priva di rischi per donatrice e ricevente –, la cui sproporzione rispetto al risultato di far nascere un bambino da una donna che non potrebbe aver figli è confermata dal fatto che al trapianto di organo è stato necessario aggiungere un’altra pratica come il concepimento in provetta dell’embrione da impiantare più altri 11 di "scorta" per ulteriori tentativi e nuove gravidanze. Ma non basta: per evitare il rigetto del nuovo utero la madre è stata costretta ad assumere farmaci specifici in gravidanza, esponendo il figlio a gravi rischi (e alla nascita pre-termine) ancora non stimabili. Intanto gli embrioni avanzati sono stati congelati, nell’attesa di una nuova gravidanza, che potrebbe non arrivare, visto che dopo il parto sono insorti problemi di rigetto. La domanda doverosa sull’intera vicenda dunque è: ne vale davvero la pena? Non ci sono altri modi meno innaturali per dare la gioia di un figlio a una coppia sterile? O il figlio a ogni costo è ormai diventato un diritto al punto tale da autorizzare qualunque tipo di pratica e di tecnica? Domande alle quali è doveroso dare una risposta umana.
In Svezia è diventata madre una donna priva di utero cui è stato impiantato quello di un'amica in menopausa. Numerosi gli interrogativi etici di una tecnica estremamente invasiva.
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