Vedendo l’altra sera da Fazio il "pensiero unico" di Mina Welby e Beppe Englaro che passava sul servizio pubblico senza nemmeno la parvenza di un confronto – e pensando alla gente a casa che incassava la lezione – veniva in mente una domanda che il massmediologo americano Meyrowitz poneva vent’anni fa. La domanda era se i media rappresentano la realtà, o la trasformano, creandone una nuova. Oggi questa domanda sembra ingenua; certo che i media, e soprattutto la televisione, "costruiscono" la realtà, a seconda delle angolazioni e degli accenti. Però se una sera sulla Rai la questione dei malati in stato vegetativo viene delegata esclusivamente, come ne fossero gli unici competenti, agli alfieri del "diritto a morire", allora la manipolazione non può passare inosservata. Benché non sia poi che una replica di un consueto copione.Una élite di spin doctors di area e di visione radicale, più laicista che laica, appoggiata da giornalisti di cultura affine, dètta a una maggioranza ancora ignara i comandamenti della modernità: dall’aborto alla procreazione assistita senza vincoli, alla morte data a Eluana Englaro, in attesa di misurarsi con l’eutanasia. È il pensiero corretto: tanto corretto che non c’è bisogno di contraddittorio. Più che informazione, un sermone dal pulpito – in questo caso, della tv di Stato. In cui gli officianti insegnano che certe vite non hanno alcun senso.Sennonché questa volta la "realtà" mediatica si è scontrata con quella, autentica, di migliaia di case in cui c’è un uomo o c’è una donna in quelle stesse condizioni; e dove invece madri e fratelli assistono da anni un malato, e non ne invocano la morte. Questa volta la "realtà" mediatica pretesa coma la sola possibile ha urtato contro la realtà silenziosa e massiccia di mille storie di cui non si parla – perché non vanno nella "corretta" direzione.Sermoni a senso unico più silenzio imposto sono, appunto, l’operazione di formazione e trasformazione del sentire comune che è in pieno svolgimento. Ci hanno già parecchio "educati", e poiché non ne hanno convinti abbastanza insistono più forte. Tutto torna, eppure a noi viene ancora da non crederci, viene ancora da chiedere perché occorra così nettamente ignorare l’altro sguardo di tante famiglie su altre Eluana, o su invalidi che non chiedono affatto di morire, ma di essere aiutati a vivere. Una censura inusuale, quasi come di fronte a qualcosa di cui non si deve parlare.Il tabù di cui oggi bisogna tacere è lo scandalo dell’invalidità estrema, dell’assoluta dipendenza, del radicale bisogno. È il porre, certe malattie, noi sani davanti al limite, alla verità della nostra stessa natura. Al non essere, nel tempo degli uomini che si credono padroni, in realtà padroni neanche del proprio respiro. Intollerabile verità che ci si svela in un attimo, magari sull’asfalto di un incrocio, e cambia la vita per sempre.Di fronte a questo scandalo si può invocare il diritto a morire, negando qualsiasi senso a quella vita rimasta, così inerte – così vergognosamente inerme. E questa è la "modernità" cui veniamo educati. Ci sono però delle case, in Italia, e tante, in cui pur senza magari capire tutto di quell’abisso di umanità e di dolore si fronteggiano silenzi lunghi anni, e bisogni di cure monotone e umili, mille volte uguali, a padri e sposi e figli tornati come bambini. Migliaia di case in cui si sta di fronte a quella debolezza, a quella assenza; amando, di un malato, semplicemente la cadenza uguale ma viva del respiro. Fronteggiando il limite, nel suo volto più duro e misterioso, e continuando ad amare.Ma ci dicono che invece il modo giusto è un altro, e uno solo; e che la morte in quelle case è un diritto da reclamare. Ci fanno credere che tutti siano d’accordo. E che assurdo e indicibile sia, di fronte a certi destini, restare accanto, in una oblatività senza apparente ritorno, fedeli solo al fatto che quello è un uomo. Dicono di informarci, ma vogliono formarci, a colpi di audience. Ogni serata un poco più educati al libero pensiero obbligatorio, che ha un unico tabù: la malattia e l’impotenza che costringono gli uomini a riconoscersi creature, e il tenace restare accanto di quelli che continuano a sperare.