Cesare Mirabelli, ex presidente della Corte costituzionale - Archivio
Il punto di partenza è indiscutibile. Questi bambini hanno davvero bisogno di essere tutelati e non possono essere penalizzati dalle modalità del loro concepimento e della loro nascita. La preoccupazione della Consulta non solo è condivisibile, ma andrebbe ampliata e approfondita, valutando e bilanciando tutti i beni costituzionali che sono in gioco e gli effetti che si possono determinare. Trovare una soluzione adeguata, tra le molte soluzioni possibili è, come ha affermato la Corte, compito del legislatore.
Secondo punto: il "miglior interesse del minore" non può essere una formula per legittimare di fatto o incentivare pratiche generative vietate dalla legge.
Terzo punto: non basta l’intenzionalità genitoriale al momento del concepimento per garantire automatismi da tradurre in nuove tutele legislative, ma occorre una procedura valutativa che accerti e verifichi come si concretizzi l’obiettivo di realizzare davvero l’interesse del minore che nasce in un contesto positivo di sperimentata vita familiare.
Superare il ricorso all’articolo 44 della legge sull’adozione?
Il pensiero del professor Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, riesce come al solito ad associare limpidezza giuridica e profonda umanità. Mentre, passaggio dopo passaggio, accetta di prendere in esame con noi le due sentenze pubblicate dai suoi ex colleghi, non dimentica per un attimo che dietro le formule del diritto ci sono storie di vita e di amore, speranze e delusioni, vicende esistenziali spesso segnate da marginalità e sofferenza.
Professore, quando parla delle necessità di una valutazione proprio per verificare che il "miglior interesse del minore" non rimanga una formula ambigua, cosa intende?
Penso che tocchi al giudice minorile valutare caso per caso ogni situazione, quella cioè che garantisca davvero tutti gli obiettivi rilevanti per la crescita equilibrata del bambino, dalla cura della persona all’assistenza morale, dalla salute all’educazione scolastica, dalla tutela degli interessi patrimoniali alla sua identificazione come membro di una famiglia. Se tutte questi aspetti sono assicurati anche da una condizione di stabilità familiare nel segno della responsabilità, allora si può pensare di tutelare anche i legami in cui il "miglior interesse del minore" si concretizza. Anche se si muoviamo in un ambito che rimane molto scivoloso.
Quale rischio vede nelle sollecitazioni che la Consulta indirizza al legislatore per porre rimedio "all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore"?
Innanzi tutto occorre evitare che dietro l’espressione "miglior tutela del minore" si finisca per dare legittimità allo sfruttamento delle donne, realtà purtroppo presente quando c’è una committenza. Il figlio non è mai un diritto né tantomeno una merce acquistabile. Questo è un aspetto che bisogna evitare in ogni modo di incoraggiare. La sentenza n.33 lo afferma in modo specifico, ricordando precedenti pronunciamenti della Corte.
Un obiettivo che però supera le possibilità di intervento sia del giudice, sia del legislatore italiano.
Certo, per questo invochiamo una messa al bando internazionale di questa pratica. Anche se poi il problema di tutelare i bambini che verrebbero ugualmente generati si porrebbe sempre. Per questo, ripeto, occorre la massima attenzione per fare in modo che l’obiettivo di salvaguardare l’interesse del minore non coinvolga in alcun modo l’incentivazione di pratiche che violano la dignità in particolare della donna. Tanto è vero che sempre nella stessa sentenza n.33 si dice che «l’interesse del bambino non può essere automaticamente prevalente rispetto ad ogni altro controinteresse in gioco». La preminenza, si sottolinea giustamente, ne segnala l’importanza. Ma serve un bilanciamento.
Quali aspetti dovrebbe quindi considerare il giudice nel valutare il rapporto tra intenzionalità e qualità genitoriale?
Gli stessi che già si osservano in tutte le pratiche adottive. Per esempio la stabilità del rapporto, il fatto che si sia radicato un reale legame affettivo tra chi esercita la funzione di genitore e il minore, tra quest’ultimo e chi in un contesto familiare lo mantiene, istruisce ed educa, per usare tre termini che la Costituzione prevede, realizzando effettivamente il "miglior interesse del bambino". Tutelare tutto questo non può in alcun modo tradursi in uno strumento per il riconoscimento a priori della intenzione genitoriale che si manifesta con la fecondazione eterologa tra persone dello stesso sesso né, tantomeno, della maternità surrogata; tra l’altro equivarrebbe a legittimare di fatto quello che formalmente si vieta e sanziona.
Non rischiamo in questo modo di attribuire al giudice minorile un potere enorme, con una discrezionalità già oggi messa in discussione da tanti episodi contestati che aprono la strada a una conflittualità tra genitori e tribunali?
Il rischio c’è, ma questo riguarda il funzionamento de Tribunali per i minorenni, ai quali è demandata la protezione dei minori e che andrebbero potenziati. Potrebbe essere anche l’occasione per una revisione più profonda della legge sull’adozione. Ma il rischio sarebbe infinitamente superiore aprendo la strada a una sorta di automatismo tra genitorialità intenzionale e genitorialità effettuale. Fecondazione eterologa tra persone dello stesso sesso e maternità surrogata non possono cioè essere premesse sufficienti per garantire che il "superiore interesse del minore" venga effettivamente attuato. Diciamolo in modo ancora più chiaro: non basta la pretesa della genitorialità per assicurare al minore le migliori garanzie di crescita.
Entrambe le sentenze ritengono inefficace il ricorso ormai abituale all’articolo 44 della legge 184 del 1983 e auspicano una nuova normativa. È la strada corretta?
Sì, entrambe ritengono che l’adozione in casi particolari possa non essere adeguata perché attribuisce al bambino minori garanzie. In questi nuovi casi ci sarebbe una situazione ancora diversa, con un genitore naturale e uno che accoglie, il cosiddetto "genitore intenzionale". Del resto anche nell’adozione tradizionale c’è una componente di intenzionalità, che va però a inserirsi in un quadro di stabilità e di durata della coppia che il giudice, come sappiamo, valuta con grande attenzione. Non solo, prima del decreto adottivo, c’è un periodo di affido che non dura mai meno di un anno. Direi che si potrebbe mettere a punto un modello legislativo simile.
Nella parte finale della sentenza n. 32 si auspica «una nuova tipologia di adozione che attribuisca, con una procedura tempestiva ed efficace, la pienezza dei diritti connessi alla filiazione». Cosa c’è che non va?
È la sintesi dei rischi a cui accennavo prima. Se si tratta di legami stabili, capaci di assicurare un "miglior interesse del minore", comprovato e non solo presunto, per le modalità di generazione vanno riconosciuti indipendentemente dalle modalità di nascita. Altrimenti finiremmo per stabilire un automatismo che si tradurrebbe in uno svantaggio proprio per gli stessi minori. In sostanza, quel bambino va tutelato perché inserito in un contesto familiare idoneo, stabile e responsabile, capace di garantirgli un futuro? O solo perché nasce dalla pma? Siamo su un terreno scivoloso. Ecco perché, ripeto, va garantita una valutazione caso per caso che potrebbe anche sfociare in un esito negativo.
Cosa intende?
Che il giudice, dopo un esame approfondito e sereno della situazione, dev’essere libero di decidere se vi è il radicamento del rapporto, la continuità affettiva, l’impegno educativo, l’assunzione di responsabilità. Senza approcci ideologici. E speriamo che il legislatore possa intervenire con saggezza e con una valutazione a tutto campo, capace di tenere nella giusta considerazione aspetti giuridici, sociali e culturali. D’altra parte le competenza e l’esperienza del nuovo ministro della Giustizia, Marta Cartabia, rappresentano in questo senso una garanzia importante, per una iniziativa coerente con la Costituzione, efficace ed equilibrata.