Il dibattito sul disegno di legge Cirinnà, che inizia questa settimana nell’aula del Senato, sarà segnato da varie schermaglie costituzionali, come generalmente accade in ogni iter legislativo di un certo rilievo. Da un lato, la regolamentazione delle unioni civili viene presentata come un adempimento ad un mandato costituzionale e sovranazionale, facendo leva su quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 138/2010 e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Oliari. D’altro canto, obiezioni di costituzionalità vengono sollevate dagli oppositori al disegno di legge, soprattutto per le tendenze all’equiparazione fra unioni civili e famiglia e per la disciplina della stepchild adoption.
Da queste considerazioni è difficile prescindere, ma alcuni caveat dovrebbero essere considerati.
Anzitutto ha ragione Stefano Ceccanti quando osserva (in un articolo per "l’Unità") che sarebbe bene dismettere l’abitudine di presentare le proprie preferenze su ogni questione controversa come costituzionalmente pre-dedeterminate, dimenticando che la regola è piuttosto la discrezionalità (e la responsabilità) del legislatore democratico e l’eccezione il vincolo costituzionale, soprattutto su temi – come quello delle unioni civili – che l’Assemblea costituente non considerò affatto. Del resto uno degli elementi più antipatici dell’attuale dibattito è proprio l’affermazione, che si sente spesso ripetere, secondo cui qualora non intervenisse il legislatore sarebbero i giudici a farlo. Si tratta di un’affermazione che, se può essere esatta sul piano della previsione, non lo è su quello del "dover essere" giuridico-costituzionale, in quanto l’attivismo giudiziale sulle questioni eticamente controverse e non pregiudicate da decisioni consapevoli dei padri costituenti è una delle patologie (forse la principale) della democrazia costituzionale contemporanea, e non una sua manifestazione fisiologica: il rischio è che le grandi questioni su cui le società contemporanee sono divise siano decise dai giudici a colpi di proporzionalità e di (presunta) ragionevolezza, archiviando la sostanza del regime democratico, che invece vorrebbe che fossero risolte, sempre provvisoriamente, dai rappresentanti del popolo (e talora dal popolo stesso con referendum) dopo un dibattito libero.
Se, invece, si vuole per davvero chiamare in causa la Costituzione del 1947 (vale a dire il prodotto storico della volontà dei padri costituenti, il patto concreto che ci lega come cittadini), qualcosa da dire sull’attuale dibattito vi sarebbe. Così come esiste un esplicito mandato costituzionale sul nostro tema. Che, però, non è certo quello che la Corte costituzionale ha letto nell’art. 2, desumendo dalla natura di "formazione sociale" della coppia omosessuale l’imperativo di un riconoscimento legislativo: sarebbe davvero uno strano "mandato costituzionale al legislatore" quello su cui nessun dibattito si è svolto in Costituente e nessuna volontà storica in tal senso può essere rintracciata.
Il mandato costituzionale in materia familiare, però, c’è ed è molto netto, anche se ha ben altro contenuto. È scritto nell’art. 31 della Carta, secondo il quale «la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose». L’indirizzo è chiaro ed è evidentemente riferito alla famiglia naturale, con particolare attenzione alla protezione delle famiglie numerose. Ma quella ora citata è la disposizione costituzionale maggiormente ignorata nella storia della Repubblica, in forma talmente evidente che il fenomeno indicato come oggetto di attenzione prioritaria (le famiglie numerose) è quasi scomparso, mentre è ben noto che oggi la principale discriminazione economica non è quella che colpisce le coppie omosessuali, ma chi nasce in una famiglia con più di due figli, e che in molti casi è destinato ad avere opportunità economiche sensibilmente inferiori a quelle di cui gode chi nasce in famiglie non numerose. Anche rispetto ai principali Paesi europei, ci si dovrebbe chiedere se l’anomalia italiana sia non l’assenza di norme simili al
Pacs francese o alla
Lebenspartnerschaft tedesca, ma quella di politiche familiari simili a quelle praticate da decenni in Francia e in Germania (e in buona parte del Nord Europa). Adottare una vera prospettiva costituzionale, ricollegandoci al patto che ci lega (quello del 1947, non le sue letture compiute da molti giudici e giuristi sulla base di precomprensioni costruite nell’universo morale 'sessantottino' oggi dominan-te), vuol dire chiedersi se il disegno di legge Cirinnà non sia anzitutto responsabile di una sfasatura di prospettive: esso risponde più alle pretese di una minoranza chiassosa che all’ethos costituzionale. Il quale, se non impone una legge sulle unioni civili, non la esclude neppure (alla condizione che essa differenzi nettamente questo fenomeno dalla famiglia fondata sul matrimonio o comunque caratterizzata dalla presenza di figli), ma richiederebbe un altro ordine di priorità. In cui c’è posto per tutti, ma c’è un centro, che è il modello di famiglia oggi impropriamente degradato a 'tradizionale', che i Padri costituenti vedevano come cellula fondante della società.