mercoledì 2 marzo 2011
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È ormai noto che a confrontarsi attorno al disegno di legge sul fine vita che la pros­sima settimana affronterà la prova dell’aula di Montecitorio sono due posizioni. Schema­tizzando, c’è chi esige che venga rispettata la volontà individuale anche se questa, dettata nella forma del 'testamento biologico', di­spone che la propria vita possa essere forzo­samente abbreviata per mano di un medico.Alternativa a questa posizione è quella di chi invece antepone a ogni altro principio la tu­tela della vita in qualunque condizione di sa­lute e di efficienza fisica, fino al suo esauri­mento naturale, accompagnata da tutte le for­me opportune di sostegno e di cura, ma sen­za mai oltrepassare il confine dell’accani­mento terapeutico. Di qua la libertà di scelta assoluta (l’autodeterminazione); di là il pri­mato della dignità della vita, che ispira la re­dazione (facoltativa) delle proprie 'dichiara­zioni anticipate di trattamento'. A questa se­conda visione è ispirato il ddl varato ieri dal­la Commissione affari sociali della Camera, che non a caso vieta tassativamente ogni forma di eutanasia anche travestita, per evitare che si possa ripetere un’altra tragedia come quella di Eluana.Da qualche giorno, però, va ritagliandosi un suo spazio mediatico e politico una terza, sor­prendente posizione: quella di chi si schiera con determinazione a difesa della vita, ma u­sando paradossalmente gli stessi argomenti di quanti la vorrebbero sottoposta all’arbitrio individuale. Sostengono i fautori di questa opzione che la legge – nessuna legge – mai dovrebbe intromettersi in una materia deli­catissima che va lasciata al rapporto tra il pa­ziente (o i suoi familiari) e il medico curante. Sarebbe dunque sbagliato affidare le decisio­ni sulla fase conclusiva della vita alla regola­mentazione disposta dal Parlamento, anche se questa intende fermare ogni possibile ten­tazione eutanasica.Ma contro quello che vie­ne addirittura definito "dispotismo della leg­ge" si finisce per scagliare proprio l’argomento principe di chi vuole l’esatto contrario del­l’intangibilità della vita, che i sostenitori di questa 'terza via' agitano come un vessillo: la libertà di decidere caso per caso, senza scoc­ciature Nell’Italia ferita dalle sentenze che hanno ro­vesciato princìpi cardine e una giurispru­denza consolidata, spianando la strada al pri­mo caso di eutanasia disposta dai tribunali, si pensa ancora che una legge possa creare ri­gidità inutili e pericolose nel rapporto tra il paziente e il medico.Ma costoro, nel loro in­discutibile zelo, sono sicuri che non presidiare con norme inequivoche un terreno mala­mente arato da provvedimenti giudiziari da­gli esiti drammatici – e che dunque non han­no incontrato un’efficace resistenza nelle leg­gi già vigenti – sia una posizione responsabi­le? Possibile che non si rendano conto che sa­rebbe una leggerezza imperdonabile lasciare che a dettare di fatto o di diritto le regole sia chi pone la vita umana nel cesto dei beni ma­teriali affidabili a un testamento – accanto al­la casa, all’auto, ai risparmi in banca, alla bi­cicletta... –, povera cosa tra le altre? Agli inge­nui dell’ultima ora va forse rammentato il fio­rire incontrollato in decine di Comuni italia­ni di biotestamenti che abbandonano la vita alla mercé di volontà spinte fino a delineare forme di autentico suicidio assistito. Le rego­le arriveranno, eccome. Anzi, sono già ab­bozzate – o forzate – nella direzione opposta a quella che è urgente, invece, ribadire. E il Parlamento dovrebbe tacere e limitarsi a pren­dere nota di questo progressivo municipali­smo normative. eutanasico?Dopo oltre due anni di serra­to confronto fuori e dentro le Camere su un progetto che e­ra sotto gli occhi di tutti, ac­corgersi all’improvviso che quella legge è un di più è stu­pefacente. La legge – una leg­ge di buon senso – oggi è più che mai indispensabile.
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