È ormai noto che a confrontarsi attorno al disegno di legge sul fine vita che la prossima settimana affronterà la prova dell’aula di Montecitorio sono due posizioni. Schematizzando, c’è chi esige che venga rispettata la volontà individuale anche se questa, dettata nella forma del 'testamento biologico', dispone che la propria vita possa essere forzosamente abbreviata per mano di un medico.Alternativa a questa posizione è quella di chi invece antepone a ogni altro principio la tutela della vita in qualunque condizione di salute e di efficienza fisica, fino al suo esaurimento naturale, accompagnata da tutte le forme opportune di sostegno e di cura, ma senza mai oltrepassare il confine dell’accanimento terapeutico. Di qua la libertà di scelta assoluta (l’autodeterminazione); di là il primato della dignità della vita, che ispira la redazione (facoltativa) delle proprie 'dichiarazioni anticipate di trattamento'. A questa seconda visione è ispirato il ddl varato ieri dalla Commissione affari sociali della Camera, che non a caso vieta tassativamente ogni forma di eutanasia anche travestita, per evitare che si possa ripetere un’altra tragedia come quella di Eluana.Da qualche giorno, però, va ritagliandosi un suo spazio mediatico e politico una terza, sorprendente posizione: quella di chi si schiera con determinazione a difesa della vita, ma usando paradossalmente gli stessi argomenti di quanti la vorrebbero sottoposta all’arbitrio individuale. Sostengono i fautori di questa opzione che la legge – nessuna legge – mai dovrebbe intromettersi in una materia delicatissima che va lasciata al rapporto tra il paziente (o i suoi familiari) e il medico curante. Sarebbe dunque sbagliato affidare le decisioni sulla fase conclusiva della vita alla regolamentazione disposta dal Parlamento, anche se questa intende fermare ogni possibile tentazione eutanasica.Ma contro quello che viene addirittura definito "dispotismo della legge" si finisce per scagliare proprio l’argomento principe di chi vuole l’esatto contrario dell’intangibilità della vita, che i sostenitori di questa 'terza via' agitano come un vessillo: la libertà di decidere caso per caso, senza scocciature Nell’Italia ferita dalle sentenze che hanno rovesciato princìpi cardine e una giurisprudenza consolidata, spianando la strada al primo caso di eutanasia disposta dai tribunali, si pensa ancora che una legge possa creare rigidità inutili e pericolose nel rapporto tra il paziente e il medico.Ma costoro, nel loro indiscutibile zelo, sono sicuri che non presidiare con norme inequivoche un terreno malamente arato da provvedimenti giudiziari dagli esiti drammatici – e che dunque non hanno incontrato un’efficace resistenza nelle leggi già vigenti – sia una posizione responsabile? Possibile che non si rendano conto che sarebbe una leggerezza imperdonabile lasciare che a dettare di fatto o di diritto le regole sia chi pone la vita umana nel cesto dei beni materiali affidabili a un testamento – accanto alla casa, all’auto, ai risparmi in banca, alla bicicletta... –, povera cosa tra le altre? Agli ingenui dell’ultima ora va forse rammentato il fiorire incontrollato in decine di Comuni italiani di biotestamenti che abbandonano la vita alla mercé di volontà spinte fino a delineare forme di autentico suicidio assistito. Le regole arriveranno, eccome. Anzi, sono già abbozzate – o forzate – nella direzione opposta a quella che è urgente, invece, ribadire. E il Parlamento dovrebbe tacere e limitarsi a prendere nota di questo progressivo municipalismo normative. eutanasico?Dopo oltre due anni di serrato confronto fuori e dentro le Camere su un progetto che era sotto gli occhi di tutti, accorgersi all’improvviso che quella legge è un di più è stupefacente. La legge – una legge di buon senso – oggi è più che mai indispensabile.