giovedì 21 aprile 2011
Il no al varo delle Dat finisce per unire fronti assai diversi. I motivi  di chi si oppone sono anche molto lontani, ma convergono talora senza volerlo su un risultato paradossale. Da scongiurare.
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«Lasciatemi morire in pace!»: così il triste protagonista della campagna radicale a favore dell’eutanasia sussurra e grida ai suoi interlocutori – cioè a tutti noi, fortemente interpellati dallo spot televisivo che lo ritrae, e ora dalle sue gigantografie per le strade di alcune città. Non è un lieto fine: le storie belle e importanti finiscono sempre bene, quella dell’eutanasia è una storia che finisce male. Non accende luci sul palcoscenico, al contrario, ci butta addosso un nero sipario di tenebre. Così, tutto questo insistere sulla libertà, sull’autodeterminazione, sul "se voi non lo volete fare almeno lasciatelo fare agli altri", sul "vivi e lascia vivere" reinterpretato nel macabro "muori o almeno lascia morire", diventa uno di quei casi paradigmatici in cui la libertà è scollegata dalla felicità: una richiesta di legalizzazione che, a ben vedere, ci costringe a domandarci se la teorizzata priorità del giusto sul bene, tanto equivoca quanto cara al neutralismo liberale degli ultimi quarant’anni, è davvero un auspicabile punto d’arrivo per il diritto e per la politica.Ma veniamo ai nostri dibattiti parlamentari, ormai – forse – prossimi alla ripresa. Mentre strade e giornali si popolano di volti dolenti e tristi, cresce la sensazione che la pressione comunicativa a cui siamo sottoposti per opera dei radicali, i quali colgono l’occasione per incoraggiare i contribuenti a finanziare con il 5x1000 la propria strategia tanatologica, trovi spazio in un’atmosfera che rapidamente si è assuefatta a prese di posizione che anche solo pochi mesi fa nessuno avrebbe osato così esplicite. È solo che i toni si sono innalzati in vista della decisione finale, oppure nel corso dei lunghi mesi di sfiancante dibattito è andato maturando un diverso sentire?In realtà, l’opposizione all’approvazione della legge varata nel 2009 dal Senato ha compattato due fronti almeno formalmente estranei: quello pro-eutanasico strillato dei radicali, e un fronte frastagliato ma sempre più convergente di voci di singoli e di gruppi, di politici ed intellettuali, che, muovendo da prospettive ideologicamente spesso assai diverse, si sono ritrovate affiancate nel coro dei dinieghi. Ciascuna voce ha mostrato di avere specialmente a cuore ora la privacy ora l’autodeterminazione individuale, ora il soft law (la norma "leggera") ora la protesta contro la biopolitica come dominio legale dei mondi vitali: anche se non sempre si aveva la sensazione che tali concetti venissero maneggiati con la consapevolezza e la cura dovute, pure un messaggio era chiaro: e cioè che tutte queste voci chiedevano ormai all’unisono la preservazione dello status quo. E così arriviamo al vero cuore del problema, che è tutto qui: questo status quo, che in molti ritengono preferibile a una legge esplicitamente a favore della vita, consiste di fatto in un sistema di regole che tende a legittimare il suicidio "medicalmente" assistito. Si tratta di un sistema parallelo a quello ufficiale, giacché l’ordinamento giuridico italiano mantiene senza incrinature un meccanismo di tutela della vita terminale e della relazione clinica nella sua triplice "fisiologia" (umana, etica e deontologica): ma è un sistema informale e ufficioso già molto strutturato, fondato su interpretazioni forzate della Costituzione, e specialmente dell’articolo 32, giustificato in base a paralleli normativi con altri ordinamenti ed esperienze internazionali, alimentato da sentenze anche di massimo livello nonché da iniziative amministrative locali come i registri dei testamenti biologici, a suo tempo delegittimati dai ministeri competenti.Non intendo affermare, come altri hanno fatto con una buona dose di cinismo (e direi anche di violenza nei confronti di quel minimo di formalismo che il diritto esige per rimanere se stesso), che il nostro ordinamento sia già idoneo a ospitare e giustificare normativamente la prassi eutanasica: è facile anzi dimostrare il contrario. Ma il diritto vivente respira anche al di là della pagine dei codici, ed è proprio per questo che la legge parlamentare (a cui la Costituzione rimanda sempre, con apposite riserve, la disciplina dei fenomeni più rilevanti per la vita collettiva e i diritti fondamentali delle persone) ha il compito prezioso e insostituibile di orientare la prassi giurisprudenziale, amministrativa, e più in generale sociale. Negargli tale compito, imporle il bavaglio, lasciar fare a giudici ed esecutori, proprio come è avvenuto per anni nell’ambito della fecondazione artificiale, ha lo sgradevole effetto di privare di orientamento i cittadini e soprattutto i medici, per di più su temi letteralmente di vita o di morte. È proprio in questi settori dell’ordinamento che l’attitudine paradigmatica ed educativa della legislazione (negata ormai solo dai ciechi o da quanti perseguono secondi fini inconfessabili), mostra la sua consistenza e rilevanza: e che dopo anni di dibattito e incertezze, cittadini e medici hanno il diritto di ricevere un orientamento normativo chiaro e privo di ambiguità.
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