Caro direttore,
il presidente Napolitano chiede un sereno e approfondito confronto di idee sul tema del cosiddetto 'fine vita', ed è quello che tutti auspichiamo per dare una base strutturata a eventuali interventi legislativi, i quali senza fondate indagini e competenti ricerche potrebbero aggiungere problemi invece che risolverli. Da qualche anno mi sembra si voglia ridurre il dibattito a uno scontro fra fazioni, improntate a scelte aprioristiche. Non si ragiona, si fa il tifo, sembra non si voglia saper nulla che possa incrinare il manicheismo a cui pare obbligatorio adeguarsi. Forse perché c’è una diffusa ignoranza sull’argomento coma, stati vegetativi, coscienza, trattato persino nelle sedi di più alta responsabilità con evidente non conoscenza dei termini né dei necessari aggiornamenti sulla materia. Come pensare che si possa legiferare bene in queste condizioni?
Fino a cinque anni fa, io mi sarei automaticamente fidata e avrei sposato senza esitazione ogni iniziativa che permettesse di 'staccare la spina', come abitualmente si dice. Oggi, pur mantenendo la stessa convinzione all’autodeterminazione, dopo l’approfondimento sul tema che ho dovuto operare per la stesura di un mio libro (non un trattato ma un romanzo, che però si muoveva in questo territorio clinico con molte informazioni sul tema), mi permetto di chiedere di abbandonare il tifo e dare spazio alla ragione. Non per gloria, ma per giustificare questo mio intervento, aggiungo che il libro in questione, 'L’uomo immobile', è stato incluso dal Ministero della Salute tra le pubblicazioni che hanno più correttamente divulgato la materia. Ma noi cittadini, su un tema etico così importante, siamo tenuti nell’ignoranza scientifica anche dalla spregiudicatezza di certa politica. E così, di questi tempi, mi sembra che la Chiesa cattolica sia più aperta di non pochi parlamentari, governanti e amministratori pubblici. Commentando il prossimo Cortile dei Gentili sul 'fine vita' che si terrà nel prossimo maggio alla Camera dei deputati, il cardinale Gianfranco Ravasi si è così espresso: «Le questioni bioetiche meritano continui approfondimenti e non è possibile affidarsi, come sovente capita, a slogan e semplificazioni». Nel leggere le sue parole, non ho potuto non pensare a chi, dopo aver letto 'L’uomo immobile' mi ha chiesto: «Non ho capito se lei è pro-vita o pro-morte...». ProVercelli! ho risposto desolata, in linea con il senso di tifoseria che si è instaurato su questo delicato argomento. Se lo vogliamo affrontare seriamente, dovremmo sapere di che e soprattutto di chi si parla, e se non è certo nostro dovere informarci, è sicuramente un nostro diritto avere informazioni corrette, spesso molto diverse da quelle che circolano di bocca in bocca, anche in quelle più autorevoli. Papa Francesco ci ripete in mille modi che bisogna prestare attenzione alle questioni concrete, che i casi umani devono superare i dibattiti, anche in ambito teologico. Figurarsi in questo complesso campo neurologico, in cui c’è veramente 'caso e caso'. Seguendo questa linea di pensiero, credo che il primo impegno di uno Stato, mentre ci si documenta a fondo sulla materia, dovrebbe essere il sostegno alle migliaia di famiglie che in casa, a volte per anni, con infinito amore e sacrificio si occupano di un loro caro. È questa l’emergenza, ma si può capire solo se si considerano questi nostri concittadini dei grandi disabili e non degli inutili moribondi.
Enrica Bonaccorti
Grazie per questa riflessione così bella e sentita, cara e gentile amica. E grazie anche per il richiamo severo eppure sereno ai protagonisti della nostra scena politica e del pubblico dibattito sui temi del “fine vita” perché si dimostrino capaci di trattare una materia tanto delicata senza ideologismi. Cioè con piena attenzione a quanto la ricerca medica e scientifica continua a indagare e a rivelare e, soprattutto, con rispetto della concreta vita delle persone che al limitare della propria esistenza sperimentano – cito le sue esatte parole – condizioni da «grandi disabili» e vengono purtroppo descritti come «inutili moribondi», o addirittura – aggiungo io, ricordando recenti e meno recenti ma sempre mortificanti polemiche – come «vite indegne».
Nella scorsa legislatura, al culmine di un davvero imponente lavoro di documentazione e di scrittura e riscrittura di testi, era arrivato a un passo dall’approvazione definitiva da parte del Senato (dopo il passaggio iniziale in Senato stesso e le correzioni apportate dalla Camera) il disegno di legge intitolato «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento», la cosiddetta «legge sulle Dat». Credo che ogni nuova iniziativa in materia di “fine vita” possa e debba tener conto di quel prezioso precedente purtroppo contrastato da una campagna politica e mediatica preconcetta e distorcente proprio come la caricatura tragica che viene abitualmente fatta delle persone che affrontano assieme alle loro famiglie malattie fortemente invalidanti, stati di coma o di minima (o intermittente) coscienza.
Questi anni di parole fuori misura pronunciate da più parti e di smodati inni all’«autodeterminazione» (che non è nemmeno per me un concetto negativo, a patto che non venga assolutizzata e trasformata in disumano strumento del “perfettismo”, l’ideologia per cui solo le persone senza difetti meritano la vita) sono stati segnati anche da una distanza siderale tra le affermazioni dei partigiani dell’eutanasia e del suicidio somministrati dallo Stato e attenzione alla vita dei grandi disabili e dei malati terminali e delle loro generose e, spesso, troppo sole famiglie. Come se il vero nodo da sciogliere, da lei giustamente rimarcato, non fosse proprio questo: dare risposta ad attese di vita, di cura e di lenimento/annullamento delle sofferenze. Attese di tantissimi di noi, che alla comunità civile di cui tutti facciamo parte chiedono di non essere abbandonati e maltrattati quanto a terapie e a cure palliative, cioè di non essere considerati un «peso» e – rabbrividisco a scriverlo – un «centro di spesa» da tagliare. La vera urgenza, morale e sanitaria, è questa. Sono contento che anche lei si renda conto di come la Chiesa cattolica lo dica e lo testimoni con efficacia, stando un passo avanti a molti altri, nonostante anche qui qualcuno tra gli autoproclamati “illuminati” (laici e non solo) si ostini a raccontare la favola triste dei «cattolici che ci vogliono costringere a soffrire» e qualcun altro tra certi veementi “difensori dei valori” (cattolici e non solo) si presti purtroppo a questo pessimo gioco polemico con toni insopportabilmente analoghi a quelli della controparte. Ha ragione: non se ne può più di iperboli sommarie e sentenziose, di disattenzioni ingiuste e di una sconsolante tendenza a rifiutare, nei fatti, considerazione e accoglienza verso le persone “imperfette”, e la loro vita vera.