domenica 10 aprile 2011
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Il medico non è vincolato dalle volontà espresse dal paziente, anche quando sono sottoscritte in un consapevole consenso informato, ma deve operare con prudenza, in scienza e coscienza, per il bene di chi ha in cura. Questo il succo della sentenza con cui la Cassazione ieri ha confermato la condanna per omicidio colposo (andata comunque in prescrizione) a tre chirurghi che avevano operato una signora gravemente malata di cancro, morta a seguito dell’intervento: la donna lo aveva chiesto con forza ma, secondo i giudici, quello dei chirurghi si configurava come «inutile accanimento diagnostico-terapeutico», vietato dal codice deontologico e passibile di condanna.Non basta, cioè, che un malato capace di intendere e di volere chieda una terapia ben precisa, perché il medico la debba eseguire: l’ultima parola spetta al professionista. Solo lui ha gli strumenti per giudicare fino in fondo quale sia il modo più adeguato per curare i propri pazienti. I quali possono rifiutare un trattamento che viene loro proposto, ma non possono pretendere che i dottori ne eseguano uno richiesto.Una sentenza, insomma, in accordo con la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) in discussione in Parlamento, per la quale il medico deve tenere conto delle volontà espresse dal paziente quando ancora era in grado di farlo, ma non è obbligato a eseguirle, perché non può trasformarsi in un mero esecutore delle sue richieste. E un alibi in meno a chi sostiene che la legge sulle Dat è incostituzionale perché le indicazioni contenute non sono vincolanti.Ancora una volta si conferma che l’autodeterminazione del paziente non è assoluta, perché non basta il suo consenso a rendere legittimo qualsiasi intervento medico: il professionista non può scaricare sul malato la responsabilità che gli compete, quella cioè del giudizio ultimo sulla terapia da intraprendere, sospendere, o non iniziare affatto. L’alleanza medico-paziente deve cioè camminare su due gambe: una è la fiducia di chi viene curato nella scienza e coscienza di chi cura, e l’altra è la condivisione consapevole e informata, e quindi libera, delle strategie terapeutiche.La sentenza di venerdì scorso va in direzione opposta a quella che riguardava Eluana Englaro, per la quale, invece, il consenso informato non serve: per interrompere alimentazione e idratazione a una persona che non l’ha mai chiesto esplicitamente, è sufficiente ipotizzare le sue opinioni, deducendole a posteriori, anche in base agli stili di vita. Basta che ne abbia parlato a tavola con i genitori, o che abbia detto agli amici 'non vorrei mai vivere così', e si possono sospendere acqua e cibo (figuriamoci le terapie).E quindi, per stabilire se un trattamento sanitario sia legittimo o no, il massimo livello della giurisprudenza italiana ha dato due criteri opposti: ieri la quarta sezione penale della Cassazione ha stabilito che il consenso informato, regolarmente sottoscritto davanti a un medico da una persona consapevole, è necessario ma non basta. Al contrario, nel 2007 secondo la Cassazione in sezioni unite civili, sono sufficienti le volontà espresse dal paziente in precedenza, in assenza di colloqui con specialisti, e anche se dedotte da testimonianze altrui.Senza una legge che regoli validità e limiti del consenso informato, insomma, è grande la confusione sotto il cielo: in caso di contenziosi i tribunali si potrebbero appellare all’uno o all’altro pronunciamento giurisprudenziale, con esiti totalmente diversi anche in situazioni analoghe. Il Parlamento si deve affrettare, quindi, ad approvare la legge sulle Dat, se vogliamo evitare che siano i singoli tribunali ad avere – anche in modo altalenante – l’ultima parola.
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