lunedì 23 maggio 2011
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«... noi Vescovi non esitiamo ad esplicitare l’auspicio che avvertiamo urgente in merito a talune questioni poste all’ordine del giorno del dibattito pubblico e che meritano la preoccupazione più condivisa da parte della cittadinanza. Penso alla legge sulla fine vita il cui varo si configura come un approdo non solo importantissimo per le famiglie che hanno al proprio interno casi riconducibili alla evocata situazione, ma anche altamente significativo per la composizione calibrata e ispirata al principio di precauzione dei beni in gioco, senza dimenticare che – come afferma la Costituzione – la salute è fondamentale diritto dell’individuo, ma anche interesse della collettività (cfr art. 32). Ci si augura cordialmente che il provvedimento − al di là dei tatticismi che finirebbero per dare un’impressione errata di strumentalità − non si imbatta in ulteriori ostacoli, ottenendo piuttosto il consenso più largo da parte del Parlamento. A proposito della vita da accogliere e da promuovere, desidero ricordare il trentennale impegno del Movimento per la Vita che ha avuto una fondamentale funzione nel tenere sveglia la coscienza degli italiani sul fronte della vita concepita eppure esposta alla scelta sempre tragica dell’aborto. Anche il Santo Padre ieri, dopo il Regina Caeli ha fatto menzione a questo impegno (Benedetto XVI, Al Regina Caeli, 22 maggio 2011). Se nella cultura italiana l’opzione abortiva non è diventato un 'normale' dato di fatto molto lo si deve all’iniziativa di questo volontariato e dei media che l’hanno costantemente assecondato. Un impegno che non potrà certo diradarsi proprio ora».   

(Dalla Prolusione alla 63a Assemblea generale Cei, 23 maggio 2011)

«Vorremmo dire una parola che inducesse l’opinione pubblica a ritenere che una legge sulle dichiarazioni anticipate di fine vita è necessaria e urgente. Si tratta infatti di porre limiti e vincoli precisi a quella 'giurisprudenza creativa che sta già introducendo autorizzazioni per comportamenti e scelte che, riguardando la vita e la morte, non possono restare affidate all’arbitrarietà di alcuno. Non si tratta di mettere in campo provvedimenti intrusivi che oggi ancora non ci sono, ma di regolare piuttosto intrusioni già sperimentate, per le quali è stato possibile interrompere il sostegno vitale del cibo e dell’acqua. Chi non comprende che il rischio di avallare anche un solo caso di abuso, poiché la vita è un bene non ripristinabile, non può non indurre tutti a molta, molta cautela? Per rispettare la quale è necessario adottare regole che siano di garanzia per persone fatalmente indifese, e la cui presa in carico potrebbe un domani – nel contesto di una società materialista e individualista −  risultare scomoda sotto il profilo delle risorse richieste. È noto come il dolore soggettivo, con le possibilità offerte dalla medicina palliativa, debba al presente spaventare di meno. Piuttosto, sono i criteri di una sana precauzione a dover suggerire pensieri non ideologici ma informati a premura e tutela, e ispirati a vera 'compassione'. Questa, infatti,  non elimina la vita fragile e indifesa, ma la 'com-patisce', induce cioè a sopportarla insieme all’ammalato, si fa condivisione, sostegno, accompagnamento fino al traguardo terreno. In determinate condizioni, la paura più impertinente scaturisce dalla solitudine e dall’abbandono, mentre l’atteggiamento d’amore trova vie misteriose per farsi percepire e saper medicare. È qui, su questo versante massimamente precario e bisognoso, che una società misura se stessa. Questa mostra la sua umanità specialmente di fronte alla vita quando è troppo debole per affermare se stessa e potersi difendere; altresì quando concepisce la vita di ciascuno non solo come un bene dell’individuo, ma anche – in misura – come un bene che concorre al tesoro comune».

(dalla Prolusione al Consiglio permanente Cei, 28 marzo 2011)

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