
«I suoi occhi vagavano su tutti quei nomi maschili e femminili affiancati e incolonnati. Lesse anche giù in fondo, nella calligrafia minuta e frettolosa del babbo, sotto quello dei genitori, anche il proprio nome. Poi si tirò su, prese con noncuranza la riga e la penna, collocò la riga sotto il suo nome, percorse ancora una volta tutto quel brulichio genealogico, e infine con aria quieta e con cura svagata, meccanico e trasognato tracciò con la penna d’oro due belle righe nette attraverso tutto il foglio». Molte volte nel corso della vita ho riletto la pagina de I Buddenbrook di Thomas Mann in cui il ragazzino Hanno, ultimo nato della grande famiglia di Lubecca, decide che dopo lui non ci sarà più nessuno. A ogni rilettura mi commuovo. Non avere figli è autoescludersi da una catena tutta incentrata sul continuare, sull’essere ramo di un albero genealogico. C’è una solenne tristezza in quel gesto di autosabotaggio ma che è insieme appropriazione di sé, individuazione. La figura piena di malinconia di Hanno Buddenbrook, quel doppio tratto di penna vergato con disperata autonomia, è dirompente. Ero molto giovane la prima volta che lo lessi. La sensazione forte di rottura, di qualcuno che togliendosi fuori però si rigenera, non mi ha mai lasciato.
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