«I fatti: Orlando Yorio e io non siamo stati denunciati da Bergoglio». Una dozzina di parole chiudono una polemica velenosa andata avanti per una dozzina d’anni. Gli accusatori del Papa avevano perfino manipolato il concetto di «riconciliazione» pur di indicare Jorge Mario Bergoglio come un complice della giunta militare che dal 1976 al 1983 ha fatto in Argentina almeno trentamila lutti. Il definitivo chiarimento di padre Jalics ha costretto il grande accusatore del Papa, il giornalista ed ex capo guerrigliero Horacio Verbitsky, ad alzare bandiera bianca ed ammettere che le sue accuse si fondavano su «deduzioni» che gli apparivano «logiche». Insomma, nessuna prova. Francisco Jalics, il gesuita che nel 1976 insieme al confratello Orlando Yorio venne sequestrato e torturato dai militari argentini contesta in particolare che il sequestro sia avvenuto «per iniziativa di padre Bergoglio». Furono i torturatori, come dimostrato da
Avvenire nei giorni scorsi, a far credere ai due prigionieri di essere stati «venduti» dal loro padre provinciale, l’allora trentaseienne padre Jorge Mario. Niente di più usuale per i regimi di ogni dove. «Ritenevo che eravamo stati vittime di una denuncia – ha ribadito Jalics –, ma dalla fine degli anni ’90, grazie a diversi colloqui, mi è chiaro che tale supposizione è infondata». Secondo la ricostruzione dei fatti resa nota da Jalics, lui e Yorio vennero trascinati in prigione dai militari perché in contatto con una catechista che «poi entrò nella guerriglia. Per nove mesi non l’abbiamo più vista, ma due o tre giorni dopo il suo arresto siamo stati arrestati pure noi. L’ufficiale che mi interrogò mi chiese i documenti. Quando vide che ero nato a Budapest – rammenta l’86enne padre Jalics – pensò che ero uno spia russa». I due sacerdoti vennero rilasciati dopo cinque mesi di torture all’Esma, il terribile centro di detenzione clandestino di Buenos Aires. Bergoglio aveva raccontato di aver incontrato personalmente, sostituendosi a un cappellano militare, il generale Videla a cui chiese la liberazione immediata dei due confratelli. Alcuni giorni fa padre Francisco aveva spiegato di essersi «riconciliato» con quegli eventi e con l’allora padre provinciale. Ma alcuni media avevano sposato le teorie di Verbistsky, che intorno a quella «riconciliazione» aveva ricamato un nuovo acrobatico atto d’accusa. Sulla prima di "Pagina 12", il quotidiano argentino vicino alla presidente Kirchner, domenica scorsa il celebre Verbitsky aveva provato a insinuare: «La riconciliazione è un sacramento cattolico che consiste nel perdonare le offese ricevute». Parole che hanno «obbligato» padre Francisco Jalics a tornare sull’argomento, dato che alle sue parole era stato attribuito un «significato il contrario a quello che intendevo dire». Jalics ha ricordato fra l’altro che sia tra i gesuiti argentini che «in ambienti della Chiesa erano state diffuse informazioni false sul fatto che noi saremmo stati mandati in un quartiere povero perché avremmo fatto parte della guerriglia». Voci fatte circolare ad arte – non è un caso che vi siano stati uomini di Chiesa condannati per complicità con il regime – ma che confermano come sia «falso ritenere che la nostra prigionia sia avvenuta ad iniziativa di padre Bergoglio».C’è voluto questo perché Verbitsky, celebrato anche da alcuni giornali italiani, ammettesse che «la nuova dichiarazione va molto più in là ed esime Bergoglio da ogni responsabilità». E chissà se adesso il reporter avrà voglia di ascoltare le testimonianze dei tanti che in Argentina stanno raccontando di essere stati salvati, negli anni della dittatura militare, proprio da quel giovane gesuita, non ancora vescovo, che rischiando la vita offriva riparo a dissidenti. La sorella di papa Francesco ha confermato che durante gli anni di Videla il fratello «protesse e aiutò» molti perseguitati dalla dittatura: «Erano tempi cupi e serviva prudenza, ma il suo impegno per le vittime è provato».