In tanti arrivano da lontano. Hanno fatto giorni di strada. A piedi. La polverosa Unity Avenue a Bahr al Jabal verso la cattedrale di Santa Teresa di Juba è l’ultimo tratto per partecipare all’incontro con papa Francesco. Sono in cinquemila. Tra loro i vescovi delle sei diocesi di tutto il Sudan, i sacerdoti, i consacrati, i seminaristi. Dopo aver ascoltato le loro voci Francesco si è rivolto loro ricordando subito la strada che lo ha portato qui: «Porto sempre scolpiti nel cuore alcuni momenti vissuti prima di questa visita: la celebrazione a San Pietro nel 2017, durante la quale abbiamo elevato la supplica a Dio per il dono della pace; e il ritiro spirituale del 2019 con i Leader politici, invitati affinché, attraverso la preghiera, prendessero nel cuore la ferma decisione di perseguire la riconciliazione e la fraternità nel Paese. Abbiamo anzitutto bisogno di questo: di accogliere Gesù, nostra pace e nostra speranza». IL TESTO INTEGRALE
È questo l’incontro che il Papa ha voluto dedicare interamente ai fedeli cattolici che rappresentano il 52 per cento della popolazione sud-sudanese, in maggioranza di fede cristiana. Una Chiesa locale che affonda le sue radici nella prima evangelizzazione del VI secolo e deve la sua nascita, nel corso dell’Ottocento, alla tenacia di san Daniele Comboni e al coraggio delle Suore Missionarie Pie Madri della Nigrizia. Ed è grazie alla loro opera che il cristianesimo ha conosciuto una crescita straordinaria in Sud Sudan, contribuendo a rafforzare l’identità dei sud-sudanesi e a opporsi ai tentativi di islamizzazione del Sud, promossi dal governo di Khartoum dopo l’indipendenza del Sudan dal dominio anglo-egiziano a cui hanno fatto seguito le due sanguinose guerre civili del 1955-1972 e del 1983-2005 sfociate poi nell’indipendenza del Sud Sudan nel 2011.
«Come esercitare il ministero in questa terra, lungo le sponde di un fiume bagnato da tanto sangue innocente, – ha detto loro papa Francesco – mentre i volti delle persone a noi cosa significa essere ministri di Dio in una storia affidate sono solcati dalle lacrime del dolore?». E ha indicato tre vie sulla traccia dell’esempio di Mosè: la docilità, l’intercessione, la preghiera. Prima di tutto – ha detto – non bisogna pensare di essere noi al centro, contando solo sulle nostre forze, perché così 1si rimane prigionieri dei peggiori metodi umani, come quello di rispondere alla violenza con la violenza… A volte qualcosa di simile può capitare anche nella nostra vita di sacerdoti, diaconi, religiosi e seminaristi: sotto sotto pensiamo di essere noi il centro, di poterci affidare, se non in teoria almeno in pratica, quasi esclusivamente alla nostra bravura; o, come Chiesa, di trovare la risposta alle sofferenze e ai bisogni del popolo attraverso strumenti umani, come il denaro, la furbizia, il potere. Invece, la nostra opera viene da Dio: Lui è il Signore e noi siamo chiamati a essere docili strumenti nelle sue mani». Il primato dunque «non a noi, ma a Dio, per affidarci alla sua Parola prima di servirci delle nostre parole, per accogliere docilmente la sua iniziativa prima di puntare sui nostri progetti personali ed ecclesiali». E poi intercedere che vuol dire «scendere per mettersi in mezzo al popolo, “farsi ponti” che lo collegano a Dio».
Ha ripetuto poi l’importanza di essere insieme. «Vorrei ripetere questa parola importante: insieme. Vescovi e preti, preti e diaconi, pastori e seminaristi, ministri ordinati, religiosi e religiose…cerchiamo di vincere tra di noi la tentazione dell’individualismo, degli interessi di parte». «È molto triste – ha affermato – quando i Pastori non sono capaci di comunione, non riescono a collaborare, addirittura si ignorano tra loro! Coltiviamo il rispetto reciproco, la vicinanza, la collaborazione concreta. Se ciò non accade tra di noi, come possiamo predicarlo agli altri?»
E infine la vicinanza a Dio con la preghiera. Preghiera come quella di Mosè sul Monte «che è una vera e propria lotta con Dio perché non abbandoni Israele». «Queste mani profetiche protese e alzate per la preghiera, costano fatica – afferma Francesco – Essere profeti, accompagnatori, intercessori, mostrare con la vita il mistero della vicinanza di Dio al suo Popolo può richiedere la vita stessa. Tanti sacerdoti, religiose e religiosi – ha detto ancora il Papa riprendendo la testimonianza data da una suora e dall’esempio di san Daniele Comboni – sono rimasti vittime di violenze e attentati in cui hanno perso la vita. In realtà, l’esistenza l’hanno offerta per la causa del Vangelo e la loro vicinanza ai fratelli e alle sorelle è una testimonianza meravigliosa che ci lasciano e che ci invita a portare avanti il loro cammino».
Il Successore di Pietro ha infine ringraziato con parole che hanno suscitato un lungo applauso: «Vi ringrazio per quello che fate in mezzo a tante prove e fatiche. Grazie, a nome della Chiesa intera, per la vostra dedizione, il vostro coraggio, i vostri sacrifici, la vostra pazienza. Vi auguro, cari fratelli e sorelle, di essere sempre Pastori e testimoni generosi, armati solo di preghiera e di carità, che docilmente si lasciano sorprendere dalla grazia di Dio e diventano strumenti di salvezza per gli altri; profeti di vicinanza che accompagnano il popolo, intercessori con le braccia alzate».