Fare i conti con il male costa al mondo grande sofferenza, ma anche un’enormità di soldi. Ben 14.300 miliardi di dollari nel 2015, secondo uno studio del
think thank australiano Institute for Economics & Peace. Tantissimi, anche perché il trend è in netta crescita rispetto al 2014, quando il costo della violenza si fermò a 9.460 miliardi (l’equivalente dell’11% del Pil mondiale). Dalle spese militari alle conseguenze dei conflitti, dai costi sostenuti per le forze di polizia alle spese per la gestione dei rifugiati: la violenza muove cifre astronomiche, che se fossero impiegate diversamente potrebbero fare parecchio bene. Basterebbe infatti ridurle anche solo del 15% per mettere insieme un gruzzolo sufficiente a finanziare il Fondo europeo di stabilità, estinguere il debito greco e, con quel che resta, accantonare risorse sufficienti a raggiungere i 'Millenium Goals' di sviluppo fissati dall’Onu. Il male ha infinite facce: guerre e terrorismo mostrano quelle più terribili. Le spese militari, infatti, costituiscono il 51% del budget investito per proteggersi. Ma anche la violenza sociale, individuale o di massa, si rivela economicamente devastante. Per tacere delle organizzazioni criminali, mafie in testa, che si rivelano autentici parassiti capaci di succhiare le migliori energie di un territorio, rallentandone drammaticamente lo sviluppo.
LA VIOLENZA QUOTIDIANA COSTA PIÙ DEL TERRORISMOL'emergenza di questi anni, il terrorismo internazionale, ha fatto segnare un’escalation di paura ma anche di costi globali: 32,9 miliardi di dollari nel 2013 secondo l’Iep, 52,9 nel 2014. Un incremento del 61%, destinato a salire ancora dopo la catena di attentati che ha funestato il 2015. Mai prima d’ora il terrorismo era costato così tanto. Nemmeno nel 2001, quando si arrivò a 51,51 miliardi a causa dell’11 Settembre. L’Iep attribuisce un valore di 51,2 miliardi alle vite stroncate dagli attacchi. Ma sul bilancio del terrore pesano anche 918 milioni di costi per la cura dei feriti, 410 milioni di danni provocati dalle esplosioni, 104 da attacchi a infrastrutture, 99 dagli assalti armati e via dicendo. Pesanti anche le conseguenze sul turismo: Egitto e Tunisia hanno visto praticamente azzerarsi le presenze nei resort, con ricadute anche sulle agenzie viaggi: quelle lombarde recentemente hanno chiesto lo stato di crisi, determinato appunto dalla paura di attentati. La percezione del terrorismo da parte dell’opinione pubblica finisce tuttavia per deformare il reale impatto economico del fenomeno, che rappresenta solo una minima parte dei 'costi del male'. Omicidi e crimini violenti, infatti, hanno determinato perdite per 1.700 miliardi di dollari nel 2014. Trentadue volte tanto.
I nteressante anche notare come si spenda molto di più per la prevenzione degli attentati rispetto a quella della violenza comune, nonostante la portata dei danni determinati dalla seconda sia notevolmente più incisiva. Negli Usa la spesa pro capite antiterrorismo oscilla attorno ai 115 dollari, a fronte di danni effettivi che in media non vanno oltre i 70 dollari. Al contrario, per contrastare la violenza di tutti i giorni il governo federale investe solo 281 dollari per abitante, a fronte di danni che sfiorano i mille dollari. La logica imporrebbe di dirottare maggiori risorse sulla sicurezza ordinaria, ma l’America preferisce concentrare il suo budget sulle agenzie che lottano contro il terrore: più di mille miliardi tra il 2001 e il 2014, per una media di 73 all’anno. Diverso il discorso per i Paesi che sono flagellati in maniera continua e massiccia da attentati e attacchi suicidi. In questo caso i danni sono ingenti. L’Iraq ha perso 159 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni ed è costretto a investire 389 dollari a testa in equipaggiamenti militari. La Nigeria, a partire dal 2010, ha visto crollare del 30% gli investimenti esteri a causa dell’aggravarsi della minaccia di Boko Haram.
IL CASO ITALIA: LA MAFIA SCORAGGIA GLI INVESTIMENTILa sfiducia dei capitali stranieri, per altri motivi, è un problema che purtroppo riguarda anche l’Italia: non ci sono le bande di estremisti islamici, ma in compenso ci pensano le mafie a tenere alla larga i progetti imprenditoriali delle multinazionali. Secondo Bankitalia, la sempre più invadente presenza dei clan sul territorio nazionale ha sottratto al Paese 16 miliardi di investimenti esteri tra il 2006 e il 2012. Un anno fa, davanti alla commissione parlamentare antimafia, il governatore Ignazio Visco sottolineò che in Puglia e Basilicata la presenza delle cosche negli ultimi trent’anni ha rallentato del 16% la crescita del Pil. Poi aggiunse un impietoso confronto tra Friuli ed Irpinia, entrambi colpiti da drammatici terremoti, il primo nel 1976 e la seconda nel 1980: se in Friuli il Pil pro capite è cresciuto di 20 punti dopo il disastro, l’Irpinia ne ha persi 12 a causa della presenza della camorra, che ha drenato fondi e risorse. La Dia, nella sua ultima relazione semestrale, punta il dito anche contro i clan calabresi e su come «le cosche di ’ndrangheta continuino a rappresentare un pesante fattore frenante per lo sviluppo economico e sociale della Calabria, influenzandone le dinamiche imprenditoriali, commerciali ed amministrative, e tendano ad estendere il proprio potere di condizionamento anche ad altre porzioni di territorio nazionale ed estero».
I DANNI DELLA GUERRASu scala globale, la tragedia più grande (e costosa) resta però ovviamente la guerra, che riduce in macerie anche l’economia. Difficile quantificare i danni provocati dal conflitto in Siria, almeno finché le armi non taceranno. Save the children ha provato a calcolare i costi che di sicuro graveranno sul futuro del Paese: ci vorranno 3 miliardi per ricostruire le scuole. Circa 3 milioni di bambini siriani non riceveranno un’istruzione e questo si tradurrà in una mancata crescita del 5,4% per l’economia nazionale, pari a circa 2 miliardi di dollari. In Somalia il Pil pro capite è crollato dai 643 dollari del 1991 ai 452 del 2001. L’assenza di un governo solido e autorevole ha determinato una totale stagnazione da cui non si vede come il Paese possa uscire in tempi brevi. In compenso, nel 2012 la Somalia è stata costretta a spendere più di un miliardo di dollari per contenere le violenze: una cifra pari al 18% del suo già misero Pil. In Afghanistan, il Pil per abitante è risalito solo negli ultimi anni. Non abbastanza però per superare (nel 2010) quota 1.000 dollari, la stessa toccata nel lontano 1970. In altri termini, il peso delle armi ha schiacciato 40 anni di possibile crescita economica. Di contro, le spese per contrastare talebani e narcotrafficanti (figure che non di rado coincidono) hanno superato i 7,28 miliardi di dollari nel 2012. Tutti soldi che finiscono nelle tasche dei produttori di armamenti.
LE DIFESA PIÙ REDDITIZIA Secondo il Sipri, l’osservatorio svedese sulla pace, nel 2014 la spesa militare del mondo è sì diminuita, ma solo dello 0,4%: per comprare aerei, tank e missili le nazioni hanno sborsato 1.776 miliardi di dollari (2,3% del Pil globale). Se l’America e l’Occidente hanno ridimensionato i budget bellici, nel resto del mondo accade il contrario. Cina e Russia, in particolare, accelerano la corsa agli armamenti. Pechino ha speso 216 miliardi di dollari nel 2014: il 167% in più rispetto a dieci anni fa. Mosca si è 'fermata' a 84,5 (+97%). Ma anche Medioriente e Asia gonfiano muscoli ed eserciti. L’Arabia Saudita è ormai la quarta maggiore acquirente sul mercato con 80,8 miliardi di dollari. E nella top 15 ci sono anche India, Emirati e Sud Corea. Spunta anche l’Italia con 30,9 miliardi. Unica consolazione: rispetto al 2005 spendiamo il 27% in meno per difenderci. L’industria della difesa (da nemici interni o esterni) resta insomma il settore più redditizio al mondo: con i suoi 9.460 miliardi, nel 2014 ha quasi doppiato l’agricoltura, che nel suo complesso vale 'solo' 5.100 miliardi di dollari. Per avere un altro parametro di confronto, il fatturato del turismo mondiale si ferma a 1.900. Fare i conti con il male, per qualcuno, risulta molto conveniente.