Il massacro di Aden e il mercato di armi nell’area Nelle guerre chi lavora per la pace è più pericoloso dei nemici. Questo ha segnato il destino delle suore missionarie della Carità trucidate in Yemen. Le religiose, servendo i più poveri tra i poveri, operano in un territorio dilaniato da una guerra civile atroce e che è stata quasi totalmente dimenticata pur avendo finora causato diverse migliaia di vittime. Una coalizione di Paesi arabi guidata dall’Arabia Saudita sta conducendo una serrata campagna di bombardamenti per sostenere il governo di Abdrabbuh Mansour Hadi contro le forze ribelli Houthi. Nel contempo, milizie e formazioni jihadiste hanno preso il controllo di alcune aree complicando ulteriormente lo scenario. Nell’ultimo anno, quindi, il conflitto per il controllo del Paese si è purtroppo tramutato in emergenza umanitaria. La guerra, infatti, secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati ha già generato due milioni e mezzo di profughi e circa l’80% della popolazione necessita oramai di assistenza umanitaria. La recrudescenza del conflitto è inevitabilmente associata anche alla aumentata capacità militare dei Paesi del Golfo e di altri Stati della regione mediorientale. Paese guida in questo senso è stata l’Arabia Saudita. Negli ultimi anni è divenuta il quarto Paese al mondo per spesa militare in termini assoluti dopo Stati Uniti, Cina e Russia e primo al mondo sia per spesa militare procapite (quasi tremila dollari a persona nel 2014) sia per la quota percentuale rispetto al totale delle uscite governative (oltre un quarto). Se unitamente all’Arabia Saudita consideriamo anche altri Paesi a essa vicini, e più precisamente Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Kuwait e Qatar, allora nel periodo 2010-2015 le importazioni di armi convenzionali nell’area sono state pari a poco più di 21 miliardi di dollari. I produttori di armi di diverse nazioni si sono seduti al pantagruelico banchetto della spesa militare dei Paesi dell’area del Golfo. Alla domanda di forniture militari hanno risposto in maniera pressoché dominante i produttori statunitensi con una quota percentuale pari a circa il 55%, seguiti da britannici (17%), francesi (6,2%), spagnoli (4,2%), italiani e tedeschi (2,4%) e turchi (2%). Alla luce della recrudescenza della campagna militare guidata dai sauditi, nelle scorse settimane il Parlamento europeo ha votato per richiedere l’imposizione di un embargo alla vendita di armi all’Arabia Saudita. Tale mozione è in linea con le regole di condotta della Ue che dovrebbero prevenire l’esportazione da parte dei produttori europei verso aree di conflitto in cui vi siano palesi emergenze di natura umanitaria. La richiesta, d’altro canto, potrebbe apparire anche pleonastica se consideriamo che i Paesi europei esportatori di armamenti hanno ratificato nell’aprile del 2014 il trattato Onu sul commercio di armi che tra i suoi principi ispiratori include il fatto che gli Stati dovrebbero limitare se non proibire esportazioni di armamenti verso quei governi che si macchiano di violazioni dei diritti umani e di crimini di guerra. A dispetto delle norme internazionali, invece, i flussi di armamenti verso il Golfo e altre aree di conflitto, non avevano subito interruzioni. Solo tra il 2014 e il 2015, infatti, l’Arabia Saudita aveva aumentato le importazioni di armi di quasi il 15%, gli Emirati Arabi Uniti del 76% e il Qatar del 1000%! Il conflitto, peraltro, non sembra avere al momento una via d’uscita. In questo contesto, il martirio delle quattro missionarie della Carità non è altro che un’ulteriore conferma del fatto che la guerra distrugge qualsivoglia rispetto per la vita e la dignità umana e che a farne le spese sono in primo luogo gli innocenti e i costruttori della pace. Quello che è accaduto in Yemen alle religiose è purtroppo ricorrente in quei Paesi in cui la guerra e la violenza divengono le uniche regole che governano la vita delle persone. È però necessario ribadire che i Paesi occidentali, offrendo gli strumenti per la guerra, hanno la loro parte di responsabilità in tutto questo, e negarlo ulteriormente impoverisce le nostre istituzioni democratiche le cui norme sono calpestate e manipolate in nome di una ricerca ossessiva di profitti senza limiti.