Ci si può accontentare del bicchiere mezzo pieno, come ha fatto il presidente Karzai, sottolineando la tenuta dello schieramento di sicurezza nella capitale e l’alto numero di caduti fra i taleban rispetto ai soldati afghani, oppure vedere quello mezzo vuoto, ossia la capacità della guerriglia di colpire con un attacco combinato il cuore politico della capitale, una roboante apertura dell’attesa nuova "campagna di primavera" degli insorti.Quale che sia la prospettiva scelta, è evidente come – dieci anni dopo l’inizio della missione internazionale in Afghanistan – i taleban siano una presenza irriducibile e ineliminabile di quel Paese. La Nato non è riuscita a bloccarne la capacità di reclutamento e di azione in un decennio, tanto meno potrà farlo ora, con la data del ritiro del contingente internazionale continuamente ripetuta. E con crescenti divisioni circa le strategie da adottare per assicurare un minimo di stabilità dopo il 2014. Si è più volte sottolineato come l’incertezza delle azioni politiche rafforzi gli insorti e generi dubbi crescenti fra gli abitanti. Il tempo, si dice, lavora per i taleban e rende più pericolosa la scelta di sostenere il governo di Kabul, esponendosi alle ritorsioni dei guerrieri islamisti. Neppure aiutano le contraddittorie aperture per un compromesso con la galassia dei movimenti talebani; quante volte agli annunci di colloqui per la pacificazione sono succedute brusche frenate, incontri inconcludenti, accordi annunciati e subito smentiti. Nessuna delle parti è monolitica; anzi, in entrambi gli schieramenti si moltiplicano le differenze politiche e le ambizioni personali.In questo scenario, per la comunità internazionale risulta difficile individuare una strategia – se non vincente – almeno capace di incidere positivamente sul futuro del Paese. L’idea che sembra prevalere in molti governi, ossia quella di arrivare il prima possibile al ritiro dei contingenti, garantendo per molti anni a venire un forte sostegno alla ricostruzione e alla cooperazione civile, sembra, in queste condizioni, una pietosa bugia. Uno degli snodi cruciali è anche quello del futuro governo.Fra il 2013-14, il presidente Karzai dovrà lasciare, essendo in scadenza i suoi mandati. Lo rimpiangeranno in pochi, viste la corruzione e l’inefficienza dei suoi governi. Ma è evidente che egli cercherà di condizionare le elezioni e così faranno gli altri gruppi di pressione interni e gli Stati confinanti. Dire che il presidente dell’Afghanistan sarà scelto dagli afghani e che non bisogna interferire significa eludere il problema: basta pensare alle scorse, disastrose elezioni per capire che l’Occidente non può restare inerte o fingere che saranno davvero i cittadini a scegliersi la loro guida.Fra le tante, si possono immaginare due ipotesi: la prima è quella, molto realista, che sottolinea i legami fra Pakistan e taleban. E che sostiene che, per quanto suoni cinico e poco piacevole, il prossimo candidato forte alla presidenza dovrebbe essere scelto in accordo con Islamabad, unica possibilità per convincere il Pakistan a moderare i gruppi di insorti e a stabilizzare il governo centrale di Kabul. Kabul si riavvicinerebbe al Pakistan e forse diminuirebbero le violenze pashtun, ma molti attori regionali (India e Iran fra tutti) si opporrebbero a questa scelta. Un’altra visione punta a non avere 'un uomo forte', ma a sostenere un governo più collegiale, con un presidente quale super inter-pares, che includa tutte le diverse comunità etno-culturali. Così da non provocare il risentimento di questo o quel vicino, né dall’accentuare le tensioni interne.Certo, basta guardare al passato recente afghano per vedere come sia forte il rischio di una nuova frammentazione. In ogni caso, avendo mancato gli obiettivi di sicurezza militare, non possiamo permetterci l’inerzia politica e il 'tirare a campare' fino al 2014. Ne va della stabilità regionale. Ma lo dobbiamo anche agli afghani, con cui ci siamo impegnati dieci anni fa, e ancor più a tutti i nostri morti, per dare un senso al loro sacrificio.