martedì 4 settembre 2012
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C’è da dolersi perché in Pakistan una ragazzi­na disabile mentale è rinchiusa nella cella di un carce­re per adulti da quasi tre setti­mane sulla base di un’accusa fa­sulla. C’è da stupirsi perché l’i­mam che ha costruito questa falsità è stato arrestato sabato scorso, senza però che ciò spingesse il giudice a porre rimedio im­mediatamente, scarcerando la piccola Rimsha. E non c’è molto da meravigliarsi se il capo degli u­lema ha invece chiesto che la giovane venga su­bito rimessa in libertà.Sono tutti fattori – alcuni purtroppo noti e altri nuovi – di un’equazione che alla fine continuerà a dare lo stesso risultato: anche in Pakistan le minoranze, quali che esse siano purché diverse dall’islam, resteranno di­scriminate e soggiogate. Soprattutto grazie a una legge, quella sulla blasfemia, che nessuno di quelli che possono farlo si sogna di modificare. La reazione degli islamici più attenti e dialoganti, fin dalle prime fasi della vicenda esplosa a metà agosto, era stata di solidarietà alla ragazzina. Poi anche le frange più 'istituzionalizzate' e fonda­mentaliste hanno cominciato a dire che Rimsha andava liberata se fosse stata dimostrata l’incon­sistenza delle accuse. Perché? Perché senza ne­gare la possibile magnanimità di queste voci, senza dimenticare gli aspetti umani della vicen­da, i riflettori del mondo si erano puntati su Isla­mabad. E su una legge che con occhi da cittadini di Paesi democratici e rispettosi della libertà di religione, ma anche con i puri e semplici occhi della ragione, appare ed è iniqua.Molti osservatori cristiani, dopo la svolta di saba­to, hanno preconizzato una lenta ma inesorabile erosione dei princìpi che rendono la norma “in­toccabile”. Un granello di sabbia che potrebbe far “grippare” un meccanismo oliato per anni. Ma la mossa degli ulema e della magistratura, il fatto di aver portato alla luce il “bugiardo” e aver ristabi­lito la giustizia (in attesa del pronunciamento del giudice che venerdì dovrà decidere sulla libertà su cauzione), stanno lì a testimoniare che il go­verno della vicenda è tutt’altro che sfuggito di mano. Proprio perché i riflettori dei media inter­nazionali possono essere crudeli, ma al tempo stesso dare un’immagine di un sistema che alla fine ha già tutti gli elementi per autocorreggersi. Senza la necessità di ritoccare quell’articolo 295 del Codice penale pachistano a causa del quale hanno dato la propria vita il governatore musul­mano del Punjab Salman Taseer, il ministro cri­stiano Shahbaz Bhatti e per la quale continuano a pagare migliaia di non islamici e di musulmani che sono ancora nelle patrie galere in attesa di conoscere il proprio destino.La prima della lista è Asia Bibi, colpevole di esse­re cattolica e di difendere strenuamente la pro­pria innocenza, che langue in carcere da oltre tre anni, e che non conosce nemmeno la data del processo d’appello sulla sua condanna alla pena capitale. Silenzio e apparenza: il segreto per per­petuare un sistema che fa a pezzi come un trita­carne chi ci finisce dentro. Per accuse false, per episodi al limite del verosimile. Spesso motivati da faide all’interno dello stesso mondo islamico, gelosie, persecuzione e caccia alle proprietà ter­riere delle minoranze religiose, in particolare cri­stiane. A oggi non si può sapere come andrà a finire il caso di Rimsha. La decisone della magistratura di Islamabad di sabato scorso è fondamentale per smontare il castello dell’accusa. E l’orienta­mento che la Corte stava assumendo, sposando le tesi della difesa e la perizia medica che dichia­rava Rimsha quattordicenne e affetta da grave malattia mentale, appare altrettanto risolutivo. Ma, certo, malgrado le novità e le aperture di ma­niera, non è ancora il momento di esultare, per più di mille ragioni: tante quante le albe che Asia Bibi ha già visto da dietro le sbarre.
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