Ancor prima che per il suo contenuto, l’ormai imminente sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale può essere ritenuta storica per le circostanze che ne stanno accompagnando l’adozione: dal punto di vista del rapporto fra la politica e la giurisdizione (in questo caso la giurisdizione costituzionale) si è infatti creata una situazione nella quale la prima è oggi un vassallo impotente della seconda. La legge elettorale per la Camera dei deputati, approvata nella primavera del 2015, è stata oggetto di accese controversie sin dalla sua adozione ed è poi divenuta uno dei bersagli della campagna referendaria contro la riforma costituzionale del 2016, che pure formalmente era distinta da essa.
Contemporaneamente all’attacco in sede politica, si è sviluppato quello in sede giurisdizionale. Gran parte delle obiezioni al cosiddetto Italicum si basano sulla creativa (per non dire arbitraria) sentenza n. 1 del 2014, con la quale tre anni fa il giudice delle leggi costruì quasi ex novo dei criteri (ricavati dalla disciplina costituzionale sul diritto di voto) per giudicare sulla legge elettorale.
Anche se la Costituzione aveva scelto – non certo a caso – un sobrio silenzio sui sistemi di elezione delle due Camere, lasciando la relativa scelta ai partiti politici, i giudici del Palazzo della Consulta ritennero allora che il principio del voto 'eguale' impedisse premi di maggioranza sproporzionati e che il principio del voto 'libero' rendesse necessario accordare agli elettori la facoltà di scegliere non solo i partiti, ma anche i singoli deputati. Due argomenti discutibili da un punto di vista costituzionale, ma, soprattutto, due argomenti assai vaghi, aperti a interpretazioni opposte.
Con la conseguenza che il regno in cui si situa l’attesa della prossima sentenza della Corte è quello dell’incertezza. A questa incertezza sul merito delle questioni poste alla Corte, si aggiunge la loro assai dubbia ammissibilità, che, in punto di stretto diritto costituzionale, pare insussistente, dato che le questioni difettano di 'concretezza', non essendovi stata alcuna lesione di un diritto dei ricorrenti e dato che il controllo in astratto sulla costituzionalità delle leggi è confinato, nel nostro sistema costituzionale, alle controversie 'in via principale' fra Stato e Regioni.
Questa situazione, del resto, è nota da tempo. Dal 5 dicembre è anche noto che la riforma costituzionale è affondata nel referendum confermativo e che dunque – Consulta o non Consulta – vi è l’esigenza di coordinare la legge elettorale della Camera con quella del Senato (che è rimasta ferma alla sentenza n. 1 del 2014, visto che la riforma costituzionale avrebbe reso non più elettivo il Senato). Ma da allora a oggi, i partiti politici si sono limitati a lanciare alcune boutades con finalità per lo più tattiche (come il ritorno al Mattarellum, o al proporzionale o l’estensione dell’Italicum al Senato, per non citare che le posizioni, rispettivamente, di Pd, Fi e M5S) e hanno rinunciato a formulare qualsiasi proposta seria che segnasse una ripresa di iniziativa riguardo alla «più politica delle leggi», dunque a una materia nella quale spetta loro fisiologicamente, un’ampia discrezionalità.
Si percepisce qui quasi allo stato puro la crisi dei partiti come sedi di elaborazione culturale e programmatica, con la paradossale conseguenza che una Costituzione nata dalla volontà dei partiti (i partiti di massa dell’immediato dopoguerra) è oggi creta plasmabile nelle mani di giudici. In particolare, di quindici (anzi, in questo momento, tredici), vestiti di nero, i quali delibereranno in segreto, senza che sia neppure permesso sapere come ciascuno di essi ha votato, visto che la Corte costituzionale italiana è ormai una delle poche al mondo a non prevedere il voto dissenziente, che permette all’opinione pubblica di conoscere le opinioni dei suoi singoli componenti, almeno qualora costoro ritengano di renderle note. In un saggio degli anni 70, Norberto Bobbio affermava che la democrazia è il governo del potere pubblico in pubblico.
Nell’Italia di oggi, l’opacità dei processi decisionali sembra innestarsi sull’incertezza dei loro esiti. Con gli attori democratici (partiti e movimenti) automarginalizzati nell’attesa che i giudici costituzionali decidano sulla base di criteri incerti da loro stessi creati. Lo spazio di decisione politica che residuerà sarà quello di una scrittura della legge elettorale in Parlamento 'sotto dettatura'. Si diceva così già all’inizio degli anni 90, è vero: ma allora si voleva dire che il Parlamento avrebbe dovuto seguire gli esiti di un referendum popolare in materia elettorale. Oggi si immagina un Parlamento che esegua i dettati dei giudici costituzionali: e non è affatto la stessa cosa, almeno in termini di democrazia.
La situazione di prostrazione della politica e del processo decisionale democratico è tale da rendere ineludibile un’assunzione di responsabilità della politica: ne va della democraticità del nostro sistema costituzionale. Forse la soluzione più saggia che la Corte potrebbe adottare è anche quella giuridicamente più corretta: riconoscere l’inammissibilità della questione e lasciare alla politica la scelta sulla legge elettorale. Meglio una legge imperfetta, ma frutto del processo decisionale democratico, che una legge ottima, scritta sotto dettatura dei giudici. Anche perché sulla capacità dei giudici costituzionali di produrre una legge ottima è francamente lecito dubitare.