Caro Avvenire,
è importante sapere cosa succede nelle famiglie, nella vita delle persone, quando improvvisamente appare un terribile mostro che travolge tutto e ti trascina nello sconforto e nella disperazione. Il mostro terribile si chiama Sla, è il tremendo male che ha colpito mia madre. Tutto è iniziato nell’anno 2016, quando mia mamma ha cominciato ad accusare tanti fastidi e con essi è partito anche il mio quotidiano calvario. Partiamo dalle inaccettabili attese che il Servizio sanitario nazionale ci ha riservato: tempi biblici per una visita. Davanti a tante porte chiuse, in famiglia abbiamo messo mano al portafoglio e pagando visite specialistiche e ricoveri in strutture private ho scoperto quale morbo affliggeva la mia povera mamma. Il 2 dicembre 2017 si è spenta nella sua casa, dopo una lunga sofferenza, ma accudita amorevolmente dalla sua famiglia e dal medico protagonista di questa storia.
Il dottor Stefano Tanzj è entrato nella mia vita un anno fa, mi ha preso per mano e la montagna che era davanti a me si è trasformata in un sassolino. “Santo Stefano” – come io lo chiamo – è un medico dell’Adi (Assistenza domiciliare integrata) dell’Asl di Nereto. Ha varcato la soglia di questa casa come un caro amico, nonostante non ci fossimo mai visti o conosciuti. Addirittura il giorno della vigilia di Natale 2016 non ci ha pensato due volte a visitare mia madre che, affetta da polmonite, necessitava di un urgente aiuto. La sua presenza è stata sempre costante, anzi aumentava con l’avanzare della malattia: nei giorni festivi, durante le sue ferie, durante un suo trasloco. Negli ultimi tempi passava almeno due volte al giorno, per non parlare dei messaggi martellanti che io gli inviavo dalle sette di mattina fino alle dieci di sera. Ricordo le sue scuse per non aver potuto rispondere una sera a una mia chiamata, il suo impegno nel garantirci le visite specialistiche domiciliari dai migliori medici della zona; la sua piena dedizione nell’evitarci lunghe trafile burocratiche per ottenere quei presìdi sanitari che la legge ci riservava. E quando mi trovavo a raccontare il gran lavoro del dottor Tanzj, i suoi colleghi si giustificavano con un semplice: «Ma lui è stato male, capisce ed è più sensibile alle sofferenze degli altri... ». Infine voglio fare un ringraziamento anche all’infermiera dell’Adi Giamaica, perché è stata anche lei una cara amica.
Rosanna Massi Tortoreto (Teramo)
Una malattia inesorabile, un rapido cadere nell’agonia, troppo rapido per gli ospedali pubblici, che non poche volte hanno tempi di attesa infiniti. Ma un giorno varca la soglia di casa un medico della Asl, uno di quelli veri, con la M maiuscola. Uno di quegli uomini che ancora non badano a orari e a fatica, che si fanno sempre trovare, che non si tirano mai indietro. Che hanno a cuore il paziente, e i suoi cari. La gratitudine, e forse lo stupore, della signora Rosanna Massi è tale che, a pochi giorni dalla morte della madre, si sente in dovere di scrivere a un quotidiano e di raccontare, con tanto di nome e cognome del medico, la grazia che le è capitata. La comprendo. Un medico così, nel frangente di una malattia come la Sla, davvero allevia il doloroso cammino: perché non ci si sente soli ma accompagnati, ed è il massimo che si può domandare in una simile circostanza.
Nei giorni, poi, della approvazione in Italia del biotestamento, che decreta fra l’altro che nutrizione e alimentazione artificiali possono essere tolti, se un giorno lo ha richiesto, al paziente terminale, consola leggere che in Italia si può ancora e sempre morire come la madre della lettrice: amorosamente accompagnata e assistita fino all’ultimo giorno, in una tacita, ma autentica, alleanza fra la famiglia e il medico. Quanti medici come questo però ci sono ancora, e quanti ne crescono fra le nuove leve? Confesso che l’attuale modalità di selezione degli studenti di medicina, effettuata con test che accertano semplicemente il livello delle generali conoscenze acquisite, mi lascia un dubbio: non rimarrà escluso dalle aule universitarie chi magari è meno pronto sul piano nozionistico, ma invece più ricco sul piano umano, empatico, più sensibile e quindi più portato a essere medico? I primi della classe selezionati dai test come impareranno l’umiltà, la dedizione, la generosità di questo dottore della provincia di Teramo?
Mesi fa guardavo in tv un servizio sulla selezione dei futuri medici, centinaia di ragazzi e ragazze freschi di maturità, chini sui banchi del test. Ho pensato: fra loro forse c’è quello che mi sarà accanto, negli ultimi giorni. E ho pregato: fai che, oltre alla necessaria scienza, maturi una coscienza autenticamente umana. Perché poi, credo, qualsiasi Dat avremo o no firmato, molto dipenderà dal medico che ci assisterà, alla fine, da come ci guarderà: se come vecchi inutili arrivati al capolinea, da spingere celermente verso l’ultimo binario, o invece come persone da curare nella loro integrità di corpo e psiche e anima, fino alla fine.Li fabbricano ancora, i medici come questo “santo” Stefano, le nostre Università? È una domanda non secondaria, nel tempo in cui la cura di ogni uomo fino all’ultimo giorno non è più cosa totalmente scontata.