«La crisi ha dato tante e tali smentite a previsioni in apparenza rigorosamente scientifiche, avanzate da economisti, e non c’è da stupirsi se qualche profano abbia potuto credersi autorizzato a proclamare la bancarotta dell’Economia politica ... Alle voci, certo calunniose, non fa difetto un’attenuante: molti economisti hanno peccato d’immodestia». Queste parole di Robert Michels, politologo e autore del primo libro intitolato Economia e felicità (1917), sono state pronunciate nel 1933, ma sembrano scritte oggi. L’immodestia, o la superbia, non è prerogativa della sola scienza economica, poiché è una nota antropologica universale. In certe epoche, però, la comunità degli economisti è stata affetta da un’immodestia particolarmente pervicace e diffusa. Di fronte ad evidenti deficienze ed errori della loro disciplina, invece di farsi mettere in crisi dalla forza dei fatti e, umilmente, rivedere antiche certezze e dogmi, hanno ostinatamente rispedito le critiche al mittente. L’attuale è una di queste epoche, ed è sempre più forte il bisogno di una profonda revisione di molti dogmi e assiomi della prassi e della teoria economica.
L’economia nasce interamente definita dai confini della casa (oikos), distinta e separata dalla politica (polis). L’economia terminava quando l’uomo (maschio, adulto, libero, non lavoratore manuale) lasciava l’oikos e si recava nella polis. L’oikos con le sue regole di gestione era il regno della gerarchia ineguale e della donna, mentre la politica quello dell’uomo e dei rapporti tra uguali. Per tutta l’antichità e l’età pre-moderna, l’oikonomia ha conservato questa accezione domestica, pratica, interna, e normalmente femminile. A partire dal Settecento il sostantivo “economia” iniziò a essere accompagnato da nuovi aggettivi: politica (Smith e Verri), civile (Genovesi e molti altri), pubblica (Beccaria), sociale (molti autori), nazionale (Ortes). Aggettivi qualificativi che volevano sottolineare che l’economia non era più l’amministrazione della casa, ma neanche l’«oikonomia della salvezza» né la «Trinità economica», l’altro significato di oikonomia molto diffuso dai Padri della Chiesa fino alla modernità. L’aggettivo politico (e simili) ha qualificato molto l’economia moderna in rapporto a quella antica. Fondendo assieme l’economico con il politico (economia politica) – due campi che erano rimasti separati per millenni – alcune categorie tipiche della politica sono entrate dentro l’economia. Ma più forte è stata l’influenza opposta, se pensiamo alla forza con la quale il linguaggio, la razionalità e la logica economica stanno trasmigrando dall’economia alla politica, con effetti normalmente deleteri. Tra questi la forte tendenza a leggere tutta la vita pubblica dalla prospettiva dei vincoli di bilancio, dell’efficienza e dei costi-benefici economici, che sta producendo un dumping democratico senza precedenti, che è uno dei tratti culturali più generali e preoccupanti del nostro tempo.
Ma c’è un secondo elemento decisivo, su cui dovremmo collettivamente e politicamente riflettere molto di più. La contaminazione tra economia e politica non ha portato con sé un protagonismo politico o pubblico della donna cui era originariamente associata l’oikonomia. Abbiamo invece continuato a pensare alla “casa” come il regno del femminile e dell’economia domestica; e l’economia, diventando politica e pubblica, nei suoi principi teorici e assiomi antropologici è rimasta priva della donna e del suo specifico sguardo sul mondo e sui viventi – con conseguenze gravi e sottovalutate.Questa (di)visione la troviamo teorizzata con estrema chiarezza da Philip Wicksteed, un importante economista inglese del secolo scorso, nonché pastore protestante e traduttore di Dante. A cuore del suo più noto e influente trattato (“Commonsense of political economy”, 1910) troviamo proprio l’analisi del comportamento della «donna di casa». Questa, finché si muove all’interno delle mura domestiche, è mossa dalla logica del dono e dell’amore dei “tu” che ha di fronte a sé. Ma non appena esce dall’economia domestica per andare al mercato, dismette i panni di casa e indossa quelli dell’economia politica, la cui logica deve essere quella che con un neologismo Wicksteed chiama «non-tuismo» (dal ‘tu’ latino). A quella casalinga, infatti, è consentito (dagli economisti) di cercare tramite il mercato il bene di tutti, tranne il bene di chi ha di fronte in un incontro economico: «La relazione economica non esclude dalla mia mente tutti tranne me [egoismo]; essa include potenzialmente tutti tranne te [non-tuismo]». Così l’economia supera l’egoismo («tutti tranne me») ma perde la relazionale personale dentro l’economica («tutti tranne te»). Le note tipiche dell’incontro vero col “tu” – gratuità, empatia, cura … – la «donna di casa» le deve esercitare solo nella sfera privata; non in quella pubblica, che resta tutta definita dal registro della strumentalità, dall’assenza del “tu” e dalla presenza di soli e solitari ‘lui’, ‘lei’ e ‘loro’. E tutto questo perché qualcuno ha stabilito con un apriori che quelle caratteristiche relazionali ed emotive, più tipiche (ma non esclusive, ovviamente) della donna, non fossero faccende serie e razionali per la seria e razionale sfera economica. Peccato, però, che quando manca il volto del “tu” che ho di fronte manca, in ogni ambiente umano, l’unico volto veramente concreto, e così non rimane che una economia senza volto, e quindi disumana. Ma soprattutto produciamo un’economia che non vede, e quindi non capisce, i tipici beni che avrebbero bisogno di categorie diverse dalla logica non-tuistica, e tra questi i beni comuni, i beni relazionali, la logica dell’azione plurale, le razionalità non strumentali, e molto, troppo, altro.
Il non-tuismo è ancora un pilastro dell’attuale scienza economica. E tutte le volte che nell’economia reale un fornitore guarda l’altro in volto e, mosso a compassione, gli concede una dilazione di pagamento, o un lavoratore va oltre il contratto e si prende cura di un cliente in difficoltà, l’economista “puro” considera queste eccezioni degli attriti, dei contratti incompleti, costi che devono essere ridotti possibilmente a zero. E infatti, più le imprese e le banche diventano grandi, burocratiche e gestite razionalmente, più questi attriti “tuistici” si riducono – ma non scompaiono mai del tutto, e non scompariranno finché le organizzazioni saranno abitate da umani.Le cose, però, stanno diversamente. Sappiamo che le azioni “tuistiche” non sono attriti o semplici costi, ma compongono quell’olio invisibile ma realissimo che non fa inceppare le nostre organizzazioni e che fa girare i complessi ingranaggi umani anche nei tempi di crisi quando i contratti e l’efficienza non bastano più. Provvidenzialmente, l’economia reale va avanti nonostante le teorie economiche e manageriali; ma oggi dobbiamo avere il coraggio culturale di denunciare questa sofferenza, per buona parte evitabile, prodotta da una antropologia obsoleta e da una ideologia economica a una sola dimensione. Non dimentichiamo che a differenza dei secoli passati quando la sfera pubblica era monopolio degli uomini (che la teorizzavano e la occupavano), oggi le donne si trovano a vivere in istituzioni economiche e politiche nelle quali restano, di fatto, periferie culturali e teoriche. I dati ci dicono che nelle nostre imprese e banche sono soprattutto le donne a soffrire, perché si ritrovano in luoghi di lavoro pensati, disegnati e incentivati da teorie mancanti “dell’altra metà” del mondo e dell’economia. Cambiare l’economia per renderla a “misura di donna” comporterebbe – lo accenno soltanto – rivedere anche la teoria e la prassi della gestione della casa, l’economia della famiglia, l’educazione dei figli, la cura dei vecchi. E molto altro ancora.
Le difficoltà del tempo presente dipendono anche dal non riuscire a valorizzare l’immensa energia relazionale e morale delle donne, che sono ancora troppo spesso ospiti e straniere nel mondo produttivo degli uomini, e così non riescono ad esprimere tutte le loro potenzialità e talenti. Anche l’economia attende di essere vivificata dal genio femminile.l.bruni@lumsa.it