sabato 13 ottobre 2012
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I professori vengono divisi, dagli studenti, in 'buoni' e 'cattivi'. I 'buoni' sono comprensivi, non mettono mai in difficoltà lo studente, gli fanno altre domande se e­gli non sa rispondere a quella che gli è stata rivolta, sono generosi con i voti. I 'cattivi' sono terribil­mente esigenti, non mettono mai gli studenti a loro agio, pretendono nelle interrogazioni risposte assolutamente esaurienti e sembra­no soddisfatti solo quando danno voti bassi.Analogamente, anche i giudici vengono di­stinti, dagli imputati, in 'buoni' e 'cattivi'. I giudici cattivi diffidano per principio dell’im­putato, cercano di metterlo in difficoltà o di coglierlo in contraddizione appena possono, vanno alla ricerca del capo di imputazione più severo e tendono sempre a dare il massi­mo della pena. Prototipo del giudice cattivo è Adam Weir, il padre del protagonista dell’ulti­mo romanzo (rimasto purtroppo incompiu­to) di Stevenson, Weir of Herminston: un giu­dice obiettivamente sadico e talmente infles­sibile da giungere al punto di condannare al­l’impiccagione il proprio stesso figlio. I giudici buoni, invece, sono comprensivi, danno cre­dito alle dichiarazioni degli imputati e, quan­do devono condannarli, riconoscono loro tut­te le possibili attenuanti, in modo da mitigare al massimo la pena: la loro identità si riassu­me in quella di Paul Magnaud (1848-1926), non a caso soprannominato «Le bon juge», al quale è attribuita l’affermazione: «Il giudice può e deve interpretare con umanità le pre­scrizioni inflessibili della legge».Giudici cattivi non ne esistono più, almeno in Europa. Se la carcerazione, soprattutto in Ita­lia, è dura, lo è per il dilagare della detenzione preventiva; quando arriva (sempre troppo in ritardo) la condanna definitiva, si scopre che le sentenze penali sono, tranne casi rarissimi, obiettivamente molto miti e apertissime in genere a utilizzare tutte le possibili alternative al carcere che il sistema giudiziario prevede. È come se tutti i giudici fossero ormai collocabi­li nella categoria dei 'buoni'. Il Tribunale del­la Città del Vaticano non fa eccezione alla re­gola: ha emesso, nei confronti del maggiordo­mo del Papa, una condanna che tutti hanno riconosciuto come molto mite e che, anche per questo, potrebbe ulteriormente favorire un provvedimento di clemenza del Pontefice nei suoi confronti. C’è però una differenza sostanziale tra la mi­tezza delle sentenze penali italiane e quella del Tribunale vaticano, su cui è opportuno ri­flettere.Per quanto come ordinamento giuri­dico quello della Città del Vaticano sia del tut­to analogabile a qualunque altro ordinamen­to statuale, esso ha la peculiarità di essere fondato in modo radicale e non formale sul Vangelo; quel Vangelo nel quale Cristo defini­sce se stesso «mite ed umile di cuore» ed invi­ta gli uomini a imitarlo. La mitezza di Cristo, in altre parole, non è un elemento che inter­viene a modellare dall’esterno, per dir così, il diritto del Vaticano, ma appartiene ai suoi principi fondanti, quale poi che sia l’espres­sione concreta con la quale essa si possa ma­nifestare nelle diverse norme giuridiche che i giudici sono chiamati ad applicare.Giustizia e mitezza sembrano essere, in altre parole, due termini che non possono essere separati, co­me avverte ogni giudice che giudicando abbia presente il volto di Cristo. Ben diversa appare invece la mitezza dei giudici, pur giusti giudi­ci, che hanno come punto di riferimento non Gesù Cristo, ma la sovranità popolare. La loro mitezza non sembra avere più oggi le sue ra­dici né nella giustizia, né in una visione antro­pologica come quella cristiana, bensì nello scetticismo giudiziario oggi dilagante. Questo scetticismo induce chi deve condannare a ri­durre sì le pene al minimo, ma non per ri­spondere a profonde esigenze di giustizia e di umanità, alle quali si tende a non credere più, ma per tacitare i possibili sgradevoli rimorsi che possono sorgere nell’animo di chi infligge al condannato sofferenze penali; qualcosa di analogo a quello che succede ai professori 'buoni', che promuovono non per convinzio­ne, ma solo per vedere contenti i loro studen­ti. In sintesi: il mondo sta diventando sempre più mite; l’aveva ben capito Norberto Bobbio, quando scrisse quel piccolo, ma straordinario libro intitolato Elogio della mitezza.Ma ben diversa è la mitezza che costituisce un princi­pio di vita per coloro che cercano di farsi imi­tatori di Cristo e la mitezza di chi cede alle tentazioni dello scetticismo giuridico, cioè di chi è convinto (a torto) di vivere in un mondo nel quale tutti i valori sono ambigui e relativi, agisce con mitezza, non perché la ritenga un bene, ma perché pensa che l’adoperarla sia la prassi più conveniente per dare equilibrio a un mondo pluralistico e conflittuale. Quello dello scetticismo giuridico è un progetto che nasconde a stento la disperazione che lo ca­ratterizza, e la mitezza del giudice scettico, al di là della benevolenza che appare sul suo volto e che caratterizza le sue sentenze, è ter­ribilmente fragile. Credo che sia giunta l’ora di prenderne consapevolezza.
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