Dopo otto giorni di bombardamenti le forze israeliane sono penetrate ieri sera nella Striscia di Gaza, dando il via a quell’attacco di terra ampiamente annunciato nelle scorse ore e deciso la notte di venerdì dal premier Olmert e dai suoi ministri. Il tutto parrebbe rappresentare una catena irreversibile di eventi, iniziata due settimane fa con la rottura della tregua da parte di Hamas e culminata ieri con la più insidiosa delle giornate di guerra. Eppure tutti questi avvenimenti non sembrano casuali.Forse un giorno non lontano si riuscirà a trovare un nesso che leghi ogni cosa. Oggi, fra i tanti possibili, si può individuare un primo filo conduttore. È, da un lato, l’assenza di strategia dei due protagonisti sul campo, dall’altro la latitanza diplomatica di molti fra i possibili mediatori. Grande assente, nonostante la natura molto dinamica della sua sperimentata diplomazia, è stata l’America, incolpevolmente colta in mezzo a quel guado che separa l’uscita di scena di George W. Bush dall’ingresso di Barack Obama, ma proprio per questo fragile e insignificante sulla scena, incapace di una parola risolutiva che non fosse un tardivo e poco lungimirante via libera all’attacco di terra di Israele.Debole e assente anche la figura del presidente dell’Anp Abu Mazen, inchiodato da un ruolo che metà dei palestinesi non rispetta e che giunge a scadenza in questi giorni, incapace di significative rotture come di coraggiosi gesti politici. Non ha saputo dar voce a quella sotterranea maggioranza silenziosa di palestinesi moderati, che nelle gesta di Hamas non vede affatto il riscatto di un popolo, bensì la scelta scellerata di un movimento politico inadatto a gestire il consenso ottenuto: come dice lo scrittore Abraham B.Yehoshua, c’è differenza fra la solidarietà e la complicità, e Hamas fra gli stessi palestinesi raccoglie solo superficialmente la prima.A dispetto delle opzioni militari e delle decisioni strategiche, che pure hanno raccolto ampi consensi nell’opinione pubblica israeliana, anche il premier Ehud Olmert e i suoi ministri Tzipi Livni e Ehud Barak sono divenuti ostaggio delle imminenti elezioni politiche che ne hanno condizionato pesantemente le scelte. A loro è forse mancato uno sguardo più ampio, si sono fatti trascinare in una guerra elettorale, solo in parte giustificabile con l’esigenza di difendere la sicurezza di Israele: certi "danni collaterali" (come si chiamano con esecrabile eufemismo), come il massacro della moschea di Jabaliya di ieri o i tanti bambini rimasti sul terreno nelle strade di Gaza potrebbero lasciare un segno sul loro destino politico.In buona parte assenti sono state anche l’Europa e l’Onu, incapaci la prima di andare al di là delle formule di circostanza, la seconda di comporre una pur blanda risoluzione che condannasse gli attori e i comprimari di questo conflitto, da ambo le parti. Sapere che domani l’iperattivo Sarkozy - orfano della presidenza semestrale della Ue ma di nuovo in pista con un istantaneo cambio di giubba nella sua veste di membro permanente delle Nazioni Unite - sarà in visita a Ramallah e a Tel Aviv non riesce a darci la speranza concreta di un cessate il fuoco.Infine, in questo teatro delle assenze e delle fragilità, brilla indubbiamente Hamas, più preoccupata forse di assicurarsi l’inevitabile risonanza mondiale che il duello fra Davide e Golia invariabilmente innesca che di ottenere davvero qualcosa di politicamente utile per i palestinesi della Striscia. Per Hamas più che di assenza si può parlare di eclisse della ragione. Quella ragione che la somma di tutte queste latitanze politiche ha oscurato per troppo tempo. E che invece vorremmo veder risorgere al più presto, senza altro attendere.