domenica 21 agosto 2016
 Tutte le guerre che non vediamo
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È diffusa l’idea che l’informazione ai nostri giorni, nel contesto della globalizzazione, sia diventata una sorta d’infallibile nuovo sapere. Attraverso le sue molteplici enfatizzazioni, sui fatti e gli accadimenti che si verificano nel nostro povero mondo, vi è infatti la presunzione, da parte di vasti settori dell’opinione pubblica, di conoscere davvero come stanno le cose. Ecco che allora lo scenario dell’imbarbarimento sembra essere a senso unico, per cui da una parte vi sarebbero solo le vittime, dall’altra i carnefici. Sta di fatto che l’accento è spesso, troppo spesso, riposto su alcuni determinati eventi che, per così dire, rispondono all’invalsa tendenza a decidere la mediatizzazione di una notizia in base a un presunto interesse dei lettori e alla sua possibile spettacolarizzazione.  Non molti anni fa, Sergio Zavoli, da grande conoscitore dell’areopago massmediale, citando fonti statunitensi, stigmatizzò l’inganno: il sistema mediatico planetario comunica appena il 20% delle notizie che pure saremmo tenuti a conoscere. E oggi, inutile nasconderselo, non abbiamo registrato notevoli progressi. Va da sé che sarebbe ingiusto, comunque, fare di tutte le erbe un fascio. Il mondo cattolico, ad esempio, attraverso le sue testate ha il grande merito di aver dato in questi anni, coraggiosamente, 'voce a chi voce non ha'. Di esempi, ne potremmo portare a iosa e riguardano, prevalentemente, le periferie geografiche ed esistenziali del pianeta: dalla Repubblica Centrafricana alla Somalia, per non parlare dello scenario mediorientale. E cosa dire della condizione in cui versa la popolazione civile, appartenente all’etnia Nande, sottoposta a indicibili sofferenze per i continui massacri perpetrati nel settore orientale della Repubblica Democratica del CongoL’ultimo, a livello di cronaca, risale alla notte tra il 13 e il 14 agosto, a Beni, nella regione del Kivu settentrionale. L’episcopato locale ha espresso la propria costernazione, riprendono le parole di papa Francesco, che il 15 agosto scorso, aveva denunciato, durante la recita dell’Angelus «i massacri nel Nord Kivu che da tempo vengono perpetrati nel silenzio vergognoso, senza attirare neanche la nostra attenzione». Condannando senza riserva questi atti ignobili, i vescovi, hanno rivolto un accorato appello «alle autorità congolesi, garanti della sicurezza delle popolazioni e dei loro beni di fare tutto quello è in loro potere per fermare questo ciclo d’atrocità». È inquietante la brutale sequenza di uccisioni perpetrate, in gran parte, all’arma bianca, contro la popolazione inerme nei villaggi congolesi, nonostante la presenza dell’esercito regolare e delle truppe dell’Onu. Come spesso avviene da quelle parti, gli interessi in gioco sono legati a controllo delle materie prime (soprattutto nel sottosuolo) che rappresentano un fattore altamente destabilizzante.  Se da una parte è chiaro che anche nel Kivu vi sono infiltrazioni di formazioni jihadiste, dall’altra non è trascurabile la galassia di gruppi ribelli al soldo del migliore offerente. Poco importa che si tratti dei ruandesi o degli ugandesi, di politici locali o di qualche faccendiere legato alle solite multinazionali di turno: a pagare sono coloro che vivono nei bassifondi della Storia. E dire che chi fa informazione, non per mestiere, ma per vocazione, non dovrebbe mai sottrarsi al 'diritto- dovere' di raccontare, stigmatizzandole, le ingiustizie e le sopraffazioni compiute nei confronti di tanta umanità dolente.  Sui giornali di tutto il mondo ha campeggiato negli ultimi giorni la foto del piccolo Omran, il bambino salvato dopo un bombardamento dalle macerie di Aleppo, ma sarebbe opportuno rammentare che quella è l’icona di una mattanza che si spinge ben oltre i confini della martoriata Siria. Ogni 5 minuti, in qualche parte nel mondo, un bambino muore a causa di un atto di violenza. Se Martin Luther King oggi fosse spettatore di questi orribili misfatti, continuerebbe a dire ciò che ha sempre predicato: «Io vi scongiuro di essere indignati».
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