La finanza e l’economia sono troppo importanti per lasciarle soltanto a finanzieri ed economisti: credo potrebbe riassumersi anche in questa battuta il messaggio che ci proviene dalla seconda e conclusiva parte del 2011. Ci siamo accorti, e con più forza rispetto alla prima fase della crisi (2008-2009), che gli indici di Borsa e lo «spread» non sono faccende lontane e per addetti ai lavori, ma sono capaci di cambiare governi, i nostri bilanci familiari, i nostri progetti di vita. E allora dobbiamo occuparcene tutti, 'abitando' di più questi luoghi che se restano disabitati dai cittadini alla lunga diventano inumani. Questa crisi ci invia anche tre messaggi specifici. Il primo riguarda direttamente il mondo bancario. Studi recenti (Università di Ancona: mofir.univpm.it), hanno messo in luce che dopo il 15 settembre 2008 le banche hanno ridotto il credito alle imprese, ma anche a quelle virtuose. Questa evidente inefficienza dipende dalla distanza tra il luogo nel quale si prendono le decisioni e quello dove operano le aziende. Banche sempre più concentrate e distanti non hanno più la conoscenza del territorio: così le decisioni sono affidate a indicatori oggettivi che non fanno vedere cose essenziali che diventano visibili soltanto agli occhi di chi abita i territori e conosce per nome la gente.Il primo messaggio che ci giunge è allora la necessità di una 'riduzione delle distanze' tra i luoghi delle decisioni e i luoghi di vita delle persone, e quindi una critica a tutta una politica finanziaria che ha invece fortemente voluto la concentrazione delle banche, a quel ’grande, lontano e anonimo’ che è stata la parola d’ordine degli ultimi due decenni. Interessante è poi notare che le banche territoriali per vocazione stanno reggendo meglio alla crisi. Tutto ciò suggerisce una sorta di regola aurea: dare diritto di cittadinanza nel quotidiano alle piccole fragilità relazionali (perdere tempo con i ’pallini’ dei clienti, investire risorse in rapporti non sempre finanziariamente remunerativi, etc.), rende meno fragili quando arrivano le grandi crisi; non accogliere, invece, queste piccole fragilità e ’crisi’ quotidiane, rende le istituzioni molto più fragili di fronte alle grandi crisi.
C’è poi un secondo messaggio chiaro che riguarda l’Europa, che oggi vive la crisi più profonda dalla sua fondazione. Se non si metterà mano a una vera unità politica, l’euro non potrà reggere ancora a lungo. Oggi però mancano i grandi statisti del dopoguerra, e il loro posto può e deve essere occupato dai cittadini. Spetta a loro, spetta a noi tutt chiedere, dal basso e con maggiore forza, più politica e finanza più regolamentata.
Infine, il terzo messaggio: c’è qualcosa di sbagliato nel capitalismo cui abbiamo dato vita soprattutto in Occidente. E questo 'qualcosa' non ha a che fare con la finanza e forse neanche con l’economia, perché si gioca a un livello della nostra cultura molto più profondo. La crisi che stiamo sperimentando è come una febbre, che segnala che qualcosa non va nell’organismo. E siccome la febbre dura da tempo, e la temperatura aumenta, la febbre va presa molto sul serio. Sono almeno due le patologie che vanno curate. Negli ultimi decenni abbiamo depredato l’ambiente, lo abbiamo ferito, umiliato. Nel giro di un paio di generazioni stiamo consumando un patrimonio di petrolio e gas che la terra ha generato in milioni di anni; e nel depauperare questo patrimonio stiamo anche ferendo l’atmosfera. Tutto ciò dice che stiamo sbagliando uno dei rapporti fondativi della nostra esistenza, quello con la terra e con la natura. E quando un rapporto così importante non funziona, è impossibile che funzionino gli altri rapporti, come mostra la crescente intolleranza nelle nostre città, la solitudine crescente, e come dimostra il rapporto ancora in buona parte predatorio con le risorse dei popoli dell’Africa, dove si perpetrano ogni giorno nuove ’stragi degli innocenti’. La seconda causa di febbre è la diseguaglianza economica che sta crescendo nel mondo, anche grazie alla rivoluzione della finanza. Senza uguaglianza economica, che non si gioca solo sull’asse del reddito ma anche su quello del lavoro, il principio di uguaglianza resta troppo astratto, perché le persone non possono realizzare la vita che desiderano vivere. L’uguaglianza è la seconda parola del trittico della modernità, e negarla significa negare anche le altre due, poiché o l’uguaglianza, la libertà e la fraternità stanno assieme, o non se ne realizza autenticamente nessuna. L’Europa ritroverà se stessa se sarà capace di ridare vita a questo Umanesimo a tre dimensioni, da cui fiorisce anche quella 'pubblica felicità' posta al centro del programma della Modernità, perché, come ci ricorda l’economista napoletano settecentesco Antonio Genovesi, «è legge dell’universo che non possiamo far la nostra felicità senza far anche quella degli altri».